16/07/2021

Aspettando Il Cinema Ritrovato… uno sguardo nuovo

Guardiamo i film di cento anni fa e ci interroghiamo sul nostro futuro. La pandemia, dalla quale speriamo di stare uscendo, ci ha cambiati? Il cinema sarà capace di cogliere e restituirci il senso di questo cambiamento?

Forse per trovare una risposta dobbiamo guardare ai film di George Stevens (maestro della Hollywood classica, con una filmografia impressionante nella quale convivono Stanlio e Ollio, Fred Astaire e Ginger Rogers, commedie brillanti, melodrammi, musical e western) e di William Wyler, di cui mostriamo I migliori anni della nostra vita (1946). È un film che narra dei vincitori, i soldati americani che tornano dalla guerra. Citiamo Wyler:

“Abbiamo tutti e tre [Capra, Stevens e Wyler] partecipato alla guerra. Essa ha esercitato su ciascuno di noi un’influenza profonda. Senza questa esperienza non avrei potuto fare il mio film come l’ho fatto. Abbiamo imparato a capire meglio il mondo”.

Quattro anni dopo Rossellini realizza Francesco giullare di Dio, un’opera spartiacque, che conclude l’esperienza neorealista, ma apre una nuova stagione, il manifesto del cinema d’autore che verrà. L’episodio centrale del film vede protagonista Aldo Fabrizi, unica star del cast, in larghissima parte composto da non attori. Fabrizi, cui dedichiamo una sezione nella quale esploriamo la sua attività di attore, ma anche di regista, era in quel momento all’apice della sua arte e del suo successo, capace di passare con uguale intensità e padronanza dal dramma alla commedia. Era l’attore italiano di maggior successo, una certezza per il botteghino. Cosa fa Rossellini? Per fargli interpretare il ruolo del sanguinario tiranno di Viterbo Nicolaio, lo chiude in una corazza e in un elmo che lo imprigionano completamente, tanto da renderlo irriconoscibile; solo dodici minuti dopo l’inizio dell’episodio, riusciamo a riconoscere il suo volto, ancorché trasfigurato dal trucco.
Per Fabrizi, che pare come sopraffatto dalla follia buona di Rossellini/Francesco, è una sfida riuscita, per i produttori (Amato e Rizzoli, gli stessi che avranno il coraggio di produrre La dolce vita) un fragoroso insuccesso commerciale. Rossellini non concede nulla allo spettacolo, al fasto della ricostruzione storica, nel film ci sono solo Francesco e i suoi discepoli, la loro semplicità, il loro candore, la loro umiltà, il loro amore. Un film che è anche formalmente impastato con l’essenza stessa del pensiero francescano.

Così come De man die zijn haar kort liet knippen, primo lungometraggio di fiction di André Delvaux, è un’opera che trova un nuovo modo, ipnotico, febbrile, di raccontare lo sfaldamento della coscienza del protagonista, del quale non solo sentiamo il soliloquio, ma condividiamo la progressiva sconnessione dalla realtà.