ANNA MAGNANI, L’IRRIPETIBILE

A cura di Emiliano Morreale

Anna Magnani è stata per il cinema quasi quel che Eleonora Duse era stata per il teatro. Un simbolo dell’Italia, certo, ma anche il simbolo stesso del mestiere di attrice. Il ruolo di Pina in Roma città aperta venne subito declinato in mille varianti di popolana eroica o comica, da L’onorevole Angelina a Molti sogni per le strade, fino alla metà degli anni Cinquanta. La posa simbolica in cui la si può fissare è quella di una donna tra la folla, trattenuta mentre si rivolta dolorosamente contro le ingiustizie della storia (in Roma città aperta, in Un uomo ritorna, in L’onorevole Angelina…).
Ma Anna Magnani è stata molto altro: prima della guerra attrice di prosa e soubrette (come ricordano ancora le sue prime apparizioni cinematografiche, su tutte Teresa Venerdì), nel dopoguerra interprete di ruoli inattesi, dal monologo Una voce umana filmato da Rossellini in L’amore a Le Carrosse d’or di Renoir. Fu anche capace di conquistare Hollywood, recitando in inglese e vincendo (tra le pochissime non anglofone) l’Oscar come migliore attrice protagonista nel 1956 per The Rose Tattoo. Lo stile-Magnani, pur irraggiungibile, influenzerà le attrici di mezzo mondo, dalle figlie dell’Actors Studio all’Estremo Oriente. Certi suoi gesti, come il portarsi le mani alla gola, sullo sterno, o col dorso ad asciugare la fronte, sono un segno ormai inequivocabile (basti pensare a come le ha rifatte, quasi citando, Meryl Streep nei Ponti di Madison County).
“Lupa e vestale, aristocratica e stracciona, tetra e buffonesca”: così la definisce Federico Fellini, pedinandola in Roma, un cameo di pochi minuti destinato a essere la sua ultima apparizione cinematografica. Oggi, è facile dire, un’attrice come lei non potrebbe esistere. Ma Magnani era, già all’epoca, unica, controcorrente: spiazzante come presenza scenica fin dai suoi provini all’Accademia d’arte drammatica, sconcertante come figura divistica, spesso criticata o irrisa nei media popolari, infine troppo grande per il nostro cinema e simbolo di un’Italia perduta, “volto di un passato che non può più tornare, icona che abbiamo bestemmiato” (Goffredo Fofi). E se poeti come Pasolini e Ungaretti hanno cantato, in diverso modo, il suo urlo in Roma città aperta, altri due pianti possono incorniciare il destino dei suoi personaggi: quello singhiozzante sulla panchina, mentre abbraccia sua figlia e si guarda smarrita intorno mormorando “aiuto”, nell’ultima parte di Bellissima – e l’altro, muto, ancora trattenuta da una piccola folla, mentre fissa a occhi sgranati la nuova Roma in lontananza, nel finale di Mamma Roma.

Emiliano Morreale

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