Aldo Fabrizi: “Tolto al mondo troppo al dente”

A cura di Emiliano Morreale

Noto al pubblico italiano come espressione di una Roma bonaria, popolare o piccolo-borghese, e a quello internazionale per la sua interpretazione del prete in Roma città aperta, Aldo Fabrizi è stato, nel secondo dopoguerra, uno degli attori comici più popolari d’Italia. Figlio di fruttivendoli, abbandonò presto gli studi per svolgere i mestieri più vari, scrivendo poesie dialettali e monologhi che lo resero noto nei teatri di varietà. I suoi personaggi, nati dall’osservazione della vita quotidiana (il tramviere, il portiere), approdarono al cinema negli ultimi anni del fascismo, con titoli (Avanti c’è posto…, 1942; Campo de’ Fiori, 1943 di Mario Bonnard) che oggi vengono visti come diretti precursori del neorealismo. Dopo Roma città aperta nei suoi ruoli comici è sempre presente una vena patetica e malinconica, dai primi successi Mio figlio professore (1946) di Renato Castellani e Vivere in pace (1947) di Luigi Zampa a Guardie e ladri (1951) di Steno e Monicelli, primo film interpretato insieme a Totò, col quale recitò in coppia in altre tre occasioni. All’inizio degli anni Sessanta termina il periodo più felice della carriera di Fabrizi, che torna anche al teatro in Rugantino, rievocazione della Roma popolaresca dell’Ottocento. La sua figura resta legata in effetti a una Roma che è la prosecuzione di quella papalina e fascista, e precede la stagione delle commedie che si confrontano con la modernità economica e culturale, con i trionfi di Gassman, Sordi, Tognazzi e Manfredi. Ma negli ultimi decenni di attività, accanto a varie apparizioni televisive, va ricordato il suo ideale testamento in C’eravamo tanto amati (1974), in cui Scola lo richiama a interpretare una versione feroce e grottesca dei suoi personaggi.
Solo di recente, invece, è stata rivalutata la sua attività di regista, che conta nove titoli tra il 1948 e il 1958. Alcuni si intrecciano tipicamente al melodramma dell’epoca (Emigrantes, 1948, o Una di quelle, 1953, interpretato da Totò e Peppino De Filippo), mentre i tre film della serie La famiglia Passaguai riprendono il suo umorismo da teatro di varietà con una torsione più surreale. All’epoca le sue regie non furono molto apprezzate dalla critica, perplessa dalla commistione di comico e patetico e dal gusto del bozzetto; ma oggi in quella cifra possiamo vedere una vena profonda del mondo dell’attore, che preannuncia doppiamente la commedia del boom: nell’emergere della vocazione malinconica, e nell’osservazione minuta e in fondo perfida di una borghesia nascente.
Fabrizi è spesso co-autore dei suoi film, collabora a soggetti e sceneggiature, talvolta è produttore, ed è inevitabilmente il baricentro delle scene in cui compare con la sua peculiare fisicità: corpulento, con la pronuncia impastata, ma con movenze quasi improvvisamente infantili o femminee che incarnano un’inadeguatezza alla recita sociale, una contraddizione, un disadattamento che troveranno in seguito altre vivide incarnazioni.

Emiliano Morreale

 

Qualche tempo fa m’è accaduto di rivedere a Roma, dopo tanti anni, Aldo Fabrizi. Quanti anni? Tanti, tantissimi… Mentre ci salutavamo calcolavo che, a contarli, non sarebbero bastate tutte le dita delle nostre mani intrecciate: di entrambe le mani, dell’uno e dell’altro, strette ancora una volta nella sincera, affettuosa effusione. E con grande finezza, qualche giorno fa, nel dedicarmi una copia del suo libro appena uscito, La pastasciutta, Fabrizi si è voluto ricordare di me non come scrittore, e neppure come regista, ma come “valente attore” cinematografico. Lavoravamo insieme, infatti, a Roma, nel primo dopoguerra: lavoravamo nel cinema, in Mio figlio professore di Renato Castellani, uno di quei numerosi film che, a quell’epoca, videro Fabrizi, con pieno suo merito, come fortunato, brillante e sentimentale protagonista.
Perché, specialmente, in quegli anni di plein air e, devo pur dirlo, di populismo un po’ facile, un po’ corrivo, la vena di Fabrizi non era solo comica. Era una vena toccante, patetica, commovente. Con Roma città aperta si era inserito perfettamente in una storia anche tragica. Nessuno come Fabrizi sapeva aggiustare, toccare al momento giusto la corda del ‘volemose bene’. E nessuno come lui sapeva asciugarsi con più convinzione il ciglio appena umido, la lacrimuccia appena spuntata, fingendo di nascondere l’imbarazzo col raffreddore o col ruvido, impacciato dorso della mano.
Giravamo dal vero, nelle strette e tortuose vie del centro di Roma. E per tutto il tempo che durò la lavorazione del film, potei studiare da vicino il modo in cui Fabrizi costruiva via via il suo personaggio. Tutti gli effetti comici, e patetici, nascevano dalla ‘pancia’: dal contrasto irresistibile tra il corpo grasso, pesante, pasciuto, e una misteriosa agilità di movimenti. Vedevo Fabrizi sbuffare, soffiare, sudare, mettersi la mano nel colletto, roteare gli occhi, strabuzzarli, e, a un tratto, accennare quasi un passo di danza, una leggera ed elegante piroetta.

Così Aldo Fabrizi diventava Fabrizi, cioè quasi una maschera: un attore-personaggio, un mimo. In contrasto con la mole ingombrante del corpo ma, appunto per questo, felicissime e comicissime, ammiravo in Fabrizi quelle goffe moine, quelle smorfiette gentili, quelle grimaces, quelle grazie e graziette vezzose, quasi femminili, di popolano innamorato delle belle maniere. Come tutti i veri attori, Fabrizi aveva indovinato un tratto genuino della sua gente: la carriera, la ricerca, a ogni costo, della ‘distinzione’, che in certi popolani romani diventa anche il gusto, la ricerca della parola e dell’espressione forbita. Con le sue mosse e mossette, Fabrizi metteva in ridicolo anche quella passione, quella smania di certi popolani di muoversi ‘in punta di piedi’. (3 novembre 1970)

Mario Soldati, Cinematografo. Racconti, ritratti, poesie, polemiche, Sellerio, Palermo 2006