28/06/2016

Luc e Jean-Pierre Dardenne, ritrovare il cinema

A Bologna per ritirare il Premio FIAF, i fratelli cineasti belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno incontrato il pubblico del Cinema Ritrovato nella Lezione di Cinema di lunedì mattina. A condurre il dialogo Nicola Mazzanti della Cinémathèque Royale de Belgique.

“Cosa vuol dire dare nuova vita a un film del passato? Fare sì che sia presente oggi sullo schermo”, quale miglior manifesto per il Cinema Ritrovato? Quale miglior augurio per il restauro di La promesse, a vent’anni esatti dalla presentazione dell’opera che sconvolse La Quinzaine des Réalisateurs a Cannes e fece conoscere al pubblico europeo il talento dei due registi nativi di Liegi?

I Dardenne partono proprio parlando del restauro del film, e dello straniamento provato nel dover analizzare e rivedere nei dettagli il loro lavoro, trovandosi a rivivere le riprese e a chiedersi se correggere le numerose imperfezioni dovute principalmente alla mancanza di mezzi. Ammettendo la forte ritrosia nell’uso del digitale (che hanno adottato solo per il loro ultimo film, fresco di presentazione a Cannes, La fille inconnue), i registi spiegano di prediligere da sempre il Super 16 e confessano di aver evitato la ricerca del film perfetto, dove tutto è sotto controllo dal punto di vista tecnico: “a noi piace lavorare nelle difficoltà, perché si crea una tensione positiva per le riprese”.

Scottati dall’insuccesso, di pubblico e di critica, con Je pense à vous (1992), lungometraggio dal budget importante dove furono schiacciati dalle aspettative – “non sapevamo più dove mettere la macchina da presa; non c’era più un perché alle nostre scelte espressive; ci alzavamo la mattina per raggiungere il set ed era come andare in fabbrica”– arrivarono a mettere in dubbio le loro motivazioni decidendo di provare a girare un film con pochi soldi seguendo esattamente il tipo di cinema che avevano in mente. Dalla sofferenza di un fallimento, quattro anni dopo, nasce La promesse, e dal suo successo (ri)nascono anche i due fratelli, autori oggi pluripremiati tra i più importanti e influenti del panorama europeo.

Le scelte di regia sono diventate talmente riconoscibili da poter parlare di uno “stile Dardenne” che privilegia gli ambienti esterni (spesso periferie degradate), la macchina a mano a pedinare i personaggi, l’attenzione per i dettagli, lo sguardo attento nel cogliere la verità delle emozioni, la valenza sociale e politica delle storie narrate. Fondamentale, raccontano, è stato poter contare su un gruppo di professionisti affiatati che “non volevano fare il loro film, ma il nostro”; una complicità creatasi dopo l’iniziale diffidenza come nel caso di Alain Marcoen (direttore della fotografia) che non condivideva le scelte dei registi e aveva chiesto di essere citato con il proprio nome nei titoli di testa previa aggiunta della scritta, ironicamente autoassolutoria, “nello spirito dei Dardenne” (specificazione omessa, ovviamente, una volta che vide il film finito).

Durante la conversazione gli autori svelano il loro personale metodo di lavorazione: le cinque settimane di prove con gli attori durante le quali cercano il tono giusto con cui affrontare le riprese – “è per noi una sorta di allenamento prima della partita vera” – e soprattutto scelgono già che tipo d’inquadrature fare, tanto da arrivare sul set (proprio come faceva un grande del cinema americano come Alfred Hitchcock) “con il montaggio già in mente”. Ancora, da sempre girano il film seguendo la cronologia interna alla storia, una scelta che impone, come si può intuire, qualche complicazione, con le scenografie che non vanno smontate fino al termine delle riprese; e poi l’uso fantasioso delle luci, come nell’esempio emblematico di Rosetta, dove, per consentire l’illuminazione del caravan nel quale viveva la protagonista con la madre, gli elettricisti stavano sul tetto dello stesso caravan in modo da far penetrare la luce da ognuna delle sei finestre mentre all’interno si giravano le scene.

Insomma, il cinema vissuto come qualcosa d’imperfetto e materico, “un’arte molto concreta come la pittura, una materia che prende forma come la scultura” afferma Luc Dardenne.

Con affetto i due autori ricordano anche chi per primo credette in loro, il drammaturgo Armand Gatti, che li incoraggiò quando avevano appena vent’anni e li stimolò a non limitare il loro interesse esclusivamente alla regia, ma anche a conoscere le altre professionalità che operano sul set. Gatti fu una persona chiave nella loro formazione tanto da essere considerato dai registi come una sorta di padre spirituale.

Molto interessanti anche le curiosità sui loro trascorsi giovanili: non avendo la televisione in casa, scoprirono i film prima in un cineclub al liceo, dai grandi autori francesi Robert Bresson e François Truffaut all’italiano Bernardo Bertolucci, e poi successivamente frequentando come spettatori la Cinémathèque a Bruxelles, dove conobbero gli anni del muto, in particolare i film di Friedrich Murnau, e furono profondamente segnati dalle opere di Roberto Rossellini, “Germania anno zero in particolare”, e Kenji Mizoguchi, “un’autentica rivelazione”.

A conclusione dell’incontro non poteva mancare uno sguardo alla situazione del cinema e della società oggi: i Dardenne, che apriranno a breve quattro sale a Bruxelles, sottolineano l’importanza del lavoro nelle scuole, “per stimolare nei giovani il desiderio di vedere i film sul grande schermo” e per far sì che il rituale del cinema rimanga un’occasione di incontro, e non diventi invece una nuova barriera sociale; l’auspicio dei due autori, che rimarcano in questo senso il decisivo contributo delle cineteche, è quello di mantenere vivo uno spazio che sia inclusivo e dinamico, che ritorni a essere un’occasione preziosa per condividere un’esperienza e un’emozione. “I film possono dividere, ognuno ha i propri gusti, ma nella sala ci si ritrova sempre insieme”.

Luca Giagnorio, Il Cinema Ritrovato News