Lezione di Cinema: Bertrand Tavernier, cinefilia ed emozioni
Il protagonista della Lezione di Cinema di domenica mattina è stato l’importante regista francese Bertrand Tavernier, che in un dialogo con il direttore della Cineteca Gian Luca Farinelli ha parlato del suo ultimo film, il documentario Voyage à travers le cinéma français. Un’opera ambiziosa che è un’indagine profonda e personale sulla storia del cinema d’oltralpe. Quale autore più efficace di Tavernier per questo progetto: cineasta cinefilo con un passato di critico cinematografico, il medesimo tratto distintivo dei registi della Nouvelle Vague, la cui passione per il cinema si è declinata prima tramite la penna e in seguito attraverso la macchina da presa.
Tavernier ha raccontato con ironia alcuni retroscena del suo documentario, come quando, in fase di preparazione, si è sentito dire che il progetto di una storia del cinema francese era sicuramente molto valido, ma sarebbe stato meglio affidarlo a Martin Scorsese (invitato poi da Tavernier stesso a rifiutare, se gli fosse arrivata l’offerta)! Punto nell’orgoglio, il regista Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 2015 ha voluto dimostrare che anche un autore francese poteva assumersi l’onore e l’onere di narrare la storia cinematografica del suo paese.
Per Farinelli il centro del film è l’amore per la Settima Arte, e non v’è dubbio che – pensando anche alla filmografia di Tavernier – da un autore così attento alle emozioni non potessimo aspettarci un approccio freddo, didascalico e accademico. In fondo, confessa il regista, un orientamento troppo istituzionale, esclusivamente da studioso, non avrebbe reso giustizia “alla carne e alla passione che si possono mettere nel fare un film”, e il documentario avrebbe corso il rischio di diventare troppo astratto; un lavoro preciso, ma senz’anima: “volevo fare una ricerca che fosse anche una scoperta”.
La sua unica certezza è stata quella di partire da un episodio chiave della sua infanzia: il momento rivelatore in cui scoprì la passione per il cinema, a sei anni, in un sanatorio di Lione dove era ricoverato per curare la tubercolosi. Seguendo l’intenso fil rouge delle emozioni – “perché non volevo che il percorso fosse scontato” – si dipana il documentario, che non ha andatura regolare, ma prende spunto dai ricordi personali di Tavernier, dalle persone che ha conosciuto, dal gusto di raccontare “ciò che non trovate scritto da nessuna parte”. Un “percorso emotivo” che oscilla tra i grandi nomi – François Truffaut, Marcel Carné, Jean Vigo – e registi meno noti come Edmond T. Gréville, Sacha Guitry, Jacqueline Audry. L’importante per il cineasta è non applicare etichette, perché banalizzano e, quando sono usate per definire un’intera generazione (esplicito il riferimento alla Nouvelle Vague), finiscono per annullare le diversità dei singoli autori, uniformarne le personalità. Le etichette non tengono nemmeno conto della coralità di professioni che, lavorando e confrontandosi insieme, concorrono a creare quella magica formula (comprensiva anche degli immancabili “accidenti sul set”, che spesso possono trasformarsi in opportunità) necessaria per la riuscita del film.
Sicuramente un campo d’indagine così vasto è stato arduo da affrontare, “l’ho vissuto a volte come un incubo” ha confessato il regista, che, nel cercare una sintesi efficace all’interno del suo altrettanto efficace girovagare, ha toccato anche temi meno agevoli come l’antisemitismo a lungo negato – “a causa di un’eccessiva e acritica ammirazione per i maestri del cinema francese” – di Jean Renoir, provato da lettere molto imbarazzanti, a causa del quale si scontrò con Jean Gabin, “il più grande attore di Francia”, che la guerra nell’esercito alleato l’aveva combattuta in prima persona. O ancora le lotte di registi come Jean Grémillon, che fu molto penalizzato per le aspre battaglie contro i produttori perché pretendeva libertà creativa in anni dove passare indenni ai brutali tagli imposti in fase di montaggio (o dalla censura) era molto difficile. Tavernier ci ha parlato apertamente di riconoscenza, quella dovuta a chi ha compromesso parte della carriera per consentire agli autori delle generazioni future di essere maggiormente liberi. Il regista non si è nascosto dietro il politicamente corretto ammettendo come oggi l’identità della Francia sia rappresentata da un nazionalismo esasperato e non più dalle comuni radici culturali, e ha spiegato come il cinema sia ancora necessario per scuotere certi dogmi, per riflettere sul presente.
Voyage à travers le cinéma français è quindi anche un atto politico, quello di un autore che con la sua opera si fa carico della trasmissione e della condivisione del sapere: “l’aspetto essenziale di chi si occupa di cultura”, l’idea fondante dello stesso Cinema Ritrovato.
Luca Giagnorio, Il Cinema Ritrovato News