Tarda primavera. Un nuovo sguardo sul cinema del disgelo (seconda parte: Crepuscolo)

Naturalmente non potevano durare, quei giorni luminosi che seguirono la morte di Stalin. Gli anni compresi tra il 1953 e il 1956 furono un interregno: mentre l’élite era impegnata nelle lotte per la successione con tutto ciò che ne conseguiva in termini di cambiamenti politici e di continuità, il cinema e le altre arti furono liberi di concedersi a tematiche troppo a lungo giudicate insignificanti, a una coloratissima joie de vivre e ai piaceri che solo il cinema di genere sa offrire. Lo scorso anno abbiamo riscoperto alcuni di questi tesori. Adesso è ora di vedere come le cose tornarono alla normalità, e come l’idea stessa di ‘normalità’ fosse cambiata.
Il 1956 è l’anno del rapporto segreto presentato da Nikita Chruščëv il 25 febbraio, il penultimo giorno del XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Con il senno di poi, quel discorso ci appare più che altro come una trovata pubblicitaria tesa a indicare il sospirato ritorno dell’ordine, con i vincitori che esibivano il loro potere accusando chi li aveva preceduti (e occultando la propria complicità). Il cinema, naturalmente, aveva ancora una volta già capito tutto. Il 1956 è anche l’anno di Pavel Korčagin di Aleksandr Alov e Vladimir Naumov e di Soldaty (Soldati) di Aleksandr Ivanov, due begli esempi che ispireranno il futuro cinema ufficiale e che sono tuttavia ancora permeati dalla folle audacia del primo Disgelo: stesse tematiche di prima, ma trattamenti nettamente diversi, selvaggi e pervasi di disperazione, foschi e macabri. Non sorprende che in un momento così inquieto i punti di riferimento vengano cercati in visioni estetiche precedenti (si pensi alla distorsione e al ridicolo della FEKS, la Fabbrica dell’attore eccentrico), come esemplificato dal tardo capolavoro di Vladimir Petrov Poedinok (Il duello, 1957) e dalla nerissima satira di Grigorij Nikulin Smert’ Pazuchina (La morte di Pazuchin, 1957), esperimento quasi sconosciuto di commistione tra teatro e cinema. Lo stesso dicasi di una formidabile femme fatale che spunta in un melodramma conferendogli sfumature noir (Raznye sud’ by [Diversi destini], Leonid Lukov, 1956); di uno splendido film sulla guerra civile che a tratti si tramuta in un angosciato kammerspiel (Ognennye vërsty [Strada infuocata], Samson Samsonov, 1957); o di un film per ragazzi che si rivela una favola dolcemente esistenziale (ed esistenzialista) dominata dal trauma e dalla perdita (Devočka iščet otca [Una ragazza in cerca del padre], Lev Golub, 1959). La rabbia, il violento desiderio che la promessa comunista si avverasse, un profondo senso d’angoscia e una duplice dose di dubbio: tutto questo sarebbe rimasto nel cinema sovietico fino al successivo epocale cambiamento di leadership, il consolidamento del potere da parte di Brežnev, seppure ai margini e non nelle produzioni convenzionali, a parte imprese prestigiose come Pavel Korčagin e Soldaty. Vi erano eccezioni, compresa la più collerica: il Vasilij Ordynskij di Četvero (I quattro, 1958), cinico suadente la cui arte non ha paragoni in una cultura cinematografica innamorata della disinvolta malinconia venata di disincantato ottimismo esemplificata da Dom, v kotorom ja živu (La casa dove abito, 1957) di Jakov Segel’ e Lev Kulidžanov.

Olaf Möller

 

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