02/07/2016

Lezione di Cinema: Vittorio Storaro – ‘Apocalypse Now’: io c’ero

“Non chiamatemi direttore della fotografia: sul set il direttore è uno solo, il regista”. Vittorio Storaro ci tiene a precisarlo nella Lezione di cinema dedicata alla sua esperienza sul set di Apocalypse Now, uno dei più importanti film americani del secolo scorso, proiettato al Cinema Ritrovato nella versione integrale da 195 minuti. Un’opera immensa che non è semplicemente un film sulla guerra di Vietnam, ma soprattutto, a un livello più profondo, una riflessione sul senso della civilizzazione – d’altronde l’ispirazione del film è Cuore di tenebra di Joseph Conrad – e sulle ombre che la parola civiltà porta con sé: il conflitto che scaturisce dal sovrapporsi di culture diverse, dominanti e dominati.

Storaro racconta la sua esperienza fin dal principio, quando fu scelto, unico italiano della troupe, da Francis Ford Coppola che aveva amato moltissimo Il conformista di Bernardo Bertolucci (“si era fatto stampare una copia in 16 mm e la riguardava quand’era depresso per ‘tirarsi su’”) e voleva assolutamente lavorare con lui. Storaro ammette però che non fu facile accettare l’offerta per due motivi. Il primo era un certo “disagio culturale” (che lo aveva già portato a rifiutare due ingaggi importanti, Jesus Christ Superstar e The Great Gatsby), l’idea cioè di intendere il cinema, maggiore attenzione ai sentimenti e alla psicologia dei personaggi da tradurre attraverso le ombre e le luci, e la lavorazione di un film, più intima e artigianale, secondo una sensibilità tipicamente europea troppo lontana da quella americana. Il secondo motivo era legato alla strettissima collaborazione tra il regista e l’autore della cinematografia, un rapporto di sintonia profonda che all’epoca Storaro viveva in modo esclusivo con Bertolucci: “mi sembrava in un certo senso di tradire Bernardo, così come, per lo stesso motivo, non volevo fare uno sgarbo a Gordon Willis, il direttore della fotografia di Coppola”. Tuttavia il regista di The Godfather lo tranquillizzò: da un parte desiderava proprio confrontarsi con una sensibilità e una conoscenza diverse da quelle americane, dall’altra spiegò come Willis non si “sentisse giusto” per il film.

Vinte con pazienza le ritrosie di Storaro, “era davvero motivato a collaborare con me, merito di Il conformista”, il regista iniziò i primi sopralluoghi in Australia, per trovare gli elicotteri americani usati in Vietnam, prima di trasferirsi nelle Filippine dove ebbero luogo le complicatissime riprese, un’odissea durata un anno e mezzo, dal febbraio ’76 al maggio ’77.

Storaro ricorda diversi episodi di quell’esperienza estrema e irripetibile “che vissi con una buona dose di incoscienza”, come quando, nella celeberrima scena dell’attacco in elicottero, fu lui stesso a convincere Coppola che “sarebbe venuta emozionante come volevamo solo se fossimo stati noi a girarla in prima persona”: con poche precauzioni e un elastico a legare la macchina da presa, Storaro, quasi sospeso nel vuoto, girò spericolate inquadrature guidando in cuffia i piloti degli elicotteri spesso costretti, per ottenere le riprese spettacolari desiderate, a volare così vicini da sfiorarsi con le pale in movimento.

Il clima sul set non fu facile, anche per i disagi ambientali dovuti al clima, e Coppola si trovò spesso a sostituire personalità anche importanti, mentre gli unici che mai vennero messi in discussione furono proprio Storaro e lo scenografo Dean Tavoularis. Tuttavia il direttore della fotografia fu sul punto di abbandonare le riprese quando gli chiesero di non mandare più i negativi ai laboratori di Roma, ma a Los Angeles. Nonostante il livello di tecnologia messo a disposizione dalla produzione di Apocalypse Now fosse enormemente superiore a quello di Novecento di Bertolucci (all’epoca il più grande film italiano mai girato, a livello di sforzi produttivi), ancora non era possibile controllare sui monitor il girato in tempo reale, quindi per sviluppare la pellicola e poter vedere il risultato dei giornalieri occorrevano almeno quindici giorni (il volo Roma-Filippine era solo una volta a settimana). Coppola propose a Storaro di mandare i negativi ai laboratori di Los Angeles, per avere più rapidamente (la città californiana era raggiungibile ogni tre giorni) la pellicola sviluppata, ma l’italiano si oppose a questa scelta perché non conosceva i professionisti che avrebbero lavorato sul girato. Il regista, ancora una volta assecondò Storaro confermando di averlo in grandissima considerazione.

Questa rapporto tra i due fu decisivo anche in fase di montaggio: in ritardo coi tempi (e quindi con costi che lievitavano sempre più) Coppola stava facendo lavorare al film cinque montatori contemporaneamente, guidati da Richard Marks (mentre il grande Walter Murch era addetto al montaggio del suono), ognuno assegnato a una parte del film. Quando Storaro prese visione delle scene montate notò che “non c’era uno stile unico e riconoscibile, si perdeva la qualità; dissi a Francis di non preoccuparsi dei soldi spesi perché se avesse assegnato l’editing a un unico montatore li avrebbe recuperati. D’altronde un film dalle proporzioni bibliche come Novecento era stato montato dal solo, grandissimo, ‘Kim’ Marcalli, era qualcosa che si poteva fare”. Così Marks ricominciò da capo il lavoro di montaggio, questa volta in solitudine. Questa scelta comportò chiaramente un nuovo allungamento dei tempi di presentazione del film che, atteso a Cannes per l’edizione del 1978, fu rimandato di un anno (nel ’79 vinse poi la Palma d’Oro, pur presentato in una versione non ancora definitiva, ex aequo con Il tamburo di latta di Volker Schlöndorff), e pazienza per le prevedibili ironie dei giornalisti che cambiavano il titolo in Apocalypse When o Apocalypse Tomorrow.

Storaro, con evidente nostalgia, ricorda altri grandiosi momenti sul set, come la celebre scena in cui studiò insieme a Marlon Brando i tagli di luce con cui illuminare progressivamente la nera figura del colonnello Kurtz – un’immagine che ha la forza di mille parole – lasciandolo il più possibile nell’ombra e rimandando lo svelamento del suo viso, il viso del Male, “in una sorta di lenta costruzione di mosaico dell’Orrore”. Il direttore della fotografia smentisce così la supposizione secondo la quale le inquadrature parziali dell’attore fossero dovute a mascherarne il notevole aumento di peso.

Altro momento unico fu la distruzione del Tempio, tutta girata di notte, dieci macchine da presa a infrarossi in simultanea: “la scena più spettacolare del film” per Storaro, alla quale però il regista rinunciò nella versione definitiva per non perdere il fortissimo impatto dell’uccisione di Kurtz compiuta dal capitano Willard.

Curioso e sintomatico della diversità culturale tra un autore americano come Coppola e uno italiano (ed europeo in generale) come Bertolucci, fu la decisione del primo di girare più finali di Apocalypse Now per poi mostrarli ad alcune proiezioni in anteprima per il pubblico e i critici. L’obiettivo era quello di capire che cosa il pubblico volesse, o si aspettasse, dalla conclusione del film, gesto questo che, come intuibile, “Bernardo non avrebbe mai fatto”. In ogni caso Coppola spiegò a Storaro che aveva capito come non si potesse “prendere una persona, portarla in un viaggio nel cuore della tenebra e poi lasciarla lì: bisogna farla tornare indietro, perché l’ombra non esiste senza luce e viceversa”.

I cinque lunghi anni di lavoro ad Apocalypse Now simboleggiano una parte della vita di Vittorio Storaro, “perché lavorando cerchiamo sempre di capire chi siamo”: il rapporto con Francis Ford Coppola e Marlon Brando, l’anno e mezzo trascorso sul set, le difficoltà e i momenti di esaltazione, tutto fu un’esperienza indimenticabile durante la quale “lavoro e vita privata furono indistinguibili: un momento magico”.

Luca Giagnorio, Il Cinema Ritrovato News

Nella gallery, foto di Lorenzo Burlando.