GUIDA AL CINEMA RITROVATO 2022
Cecilia Cenciarelli, Gian Luca Farinelli, Ehsan Khoshbakht, Mariann Lewinsky
La trentaseiesima edizione del Cinema Ritrovato sarà la prima senza due persone determinanti nella storia del nostro festival, due fondatori, che sembravano eterni e invece ci hanno recentemente lasciato: Gian Paolo Testa, che nel 1959 immaginò di creare a Porretta Terme, cittadina dell’appennino bolognese, la Mostra Internazionale del Cinema Libero da cui nel 1986 nacque Il Cinema Ritrovato, e Vittorio Boarini, che dal 1962, assieme all’assessore alla cultura del Comune di Bologna Renato Zangheri, credette che a Bologna potesse nascere e svilupparsi una grande Cineteca. Senza la loro passione, senso delle istituzioni, cultura e incoscienza utopica oggi il festival non esisterebbe e noi non saremmo qui. Negli ultimi anni la malattia aveva allontanato Gian Paolo, mentre Vittorio era rimasto fedele spettatore passando assieme alla sua compagna da un film all’altro, e ogni anno riusciva a strapparci agli impegni per una serata, per celebrare l’amicizia che è sempre stata la forza segreta del nostro piccolo festival controvento, consentendogli di diventare un’importante manifestazione dedicata all’incontro tra una vasta comunità internazionale di cinéphile e il cinema del passato, che rivive sugli schermi del Cinema Ritrovato, memoria che diventa attuale, nutrimento per il nostro futuro. Grazie Vittorio e grazie Gian Paolo per il vostro insegnamento.
Grazie agli archivi e alla loro attualità
È bene ricordarlo, ancora una volta. Questo festival si realizza grazie al concorso collettivo di tante persone, le istituzioni e gli sponsor che lo sostengono, il comitato internazionale di esperti, i curatori, la squadra della Cineteca e della Modernissimo che lo realizza, insieme ai tanti volontari che si aggiungono nella delicata fase finale. Ma i protagonisti del festival sono gli archivi, le istituzioni, quest’anno novantaquattro, che prestano i film che hanno salvato, conservato, restaurato. Senza la Film Foundation, la Fondation Jérôme Seydoux-Pathé, la Gaumont, la Cinémathèque française, l’EYE, la Murnau Stiftung… questo festival, semplicemente, non potrebbe aver luogo.
Stiamo vivendo un’epoca disumanizzata, in cui le persone e il lavoro sembrano condannate a scomparire dalla scena, per essere sostituite da algoritmi e intelligenze artificiali; ci piace qui ricordare che questa edizione del Cinema Ritrovato, come tutte quelle che l’hanno preceduta, è stata realizzata grazie al lavoro di una enorme comunità di persone competenti e appassionate, di esseri umani che lavorano per offrire ad altri esseri umani un’irripetibile esperienza culturale, in presenza!
Di ritorno dall’ultima edizione del Festival di Cannes, un film ci è rimasto nel cuore, The Natural History of Destruction di Sergei Loznitsa, due ore di immagini girate tra la fine degli anni Trenta e il 1945. Un film di montaggio, fatto esclusivamente di materiali d’archivio. Senza parole o didascalie, perché le immagini, da sole, sono sufficientemente eloquenti. Un’opera sconvolgente, perché vedendo le immagini della Seconda guerra mondiale, dei bombardamenti che rasero al suolo Berlino, è impossibile non sentire acutissimo il senso della sconfitta dell’umanità, che ottanta anni dopo riporta la guerra in Europa. Com’è possibile? La guerra accompagna la storia dell’umanità. Filosofi, letterati, religiosi, politici l’hanno condannata nei secoli; rispetto ai nostri antenati, oggi, abbiamo anche a disposizione le immagini delle guerre del Novecento, un monito senza appello, eppure la guerra è ricominciata a poca distanza da qui. Cosa possiamo, dobbiamo fare? Come Cinema Ritrovato continueremo a dimostrare che il cinema è una fonte di conoscenza essenziale e che è colpevole da parte delle istituzioni che si dedicano all’istruzione non utilizzare il patrimonio cinematografico nelle scuole per formare le giovani generazioni.
Il programma di quest’anno ha molti esempi straordinari della relazione tra cinema e storia. Nella sezione dedicata al cinema di cento anni fa, accanto alla Marcia su Roma e all’arrivo di Mussolini al governo dell’Italia, c’è un impressionate Journal Actualité Pathé che racconta di un altro nazionalismo che si afferma nel 1922, quello di Kemal Atatürk in Turchia e dell’incendio di Smirne che causò oltre trentamila vittime, in larga parte appartenenti alla comunità greca e a quella armena. Le sequenze dell’incendio e quelle finali delle case distrutte e dei sopravvissuti sono sconvolgenti. Come lo è il finale di Die Gezeichneten (Gli stigmatizzati) con cui Dreyer nel 1922 firma un atto d’accusa contro l’antisemitismo e i pogrom nella Russia dei primi del Novecento. Pochissimi film dell’epoca ritraggono così chiaramente la carica distruttiva dell’intolleranza razziale.
La stessa intolleranza che cancellò una generazione di artisti e un intero genere cinematografico di successo, cui dedichiamo la rassegna L’ultima risata. Commedie musicali tedesche 1930-1932. La qualità degli spettacoli dei cabaret e dei teatri di varietà berlinesi erano stati il serbatoio delle commedie musicali che, con l’arrivo del sonoro, invasero gli schermi tedeschi, portando una ventata di libertà creativa e sessuale senza precedenti. In pochi mesi, dopo la salita al potere di Hitler, quell’esperienza fu bloccata e molti artisti finirono nei campi di concentramento. Questa rassegna è uno sguardo su un mondo perduto e mai pienamente riconquistato dal cinema tedesco del dopoguerra.
Tra il mare e il deserto, frontiere naturali di un paese aperto ai venti, Ennio Lorenzini ci mostra l’Algeria libera, appena uscita dagli orrori della lotta armata. Les Mains libres (1964) è il primo lungometraggio (in Technicolor) prodotto in un paese che si muove alla ricerca di se stesso, di una cultura nazionale sepolta da decenni, tra i gorghi del passato e le sfide dell’avvenire.
Alla cinematografia di una nazione che non esiste più è dedicata la rassegna “Dite la verità!”, che riporterà all’attenzione del pubblico internazionale una delle produzioni più interessanti del dopoguerra, quella jugoslava. Sarà come far emergere un continente perduto, di cui sembra che nessuno voglia più parlare. Da un’altra nazione che non esiste più, la Cecoslovacchia, proviene Un giorno, un gatto (Až přijde kocour, 1963) di Vojtěch Jasný, che ha come protagonista un gatto con gli occhiali dotato di poteri speciali. Dietro le metafore è evidente il pensiero del regista, contro il regime comunista e contro ogni possibile repressione. Un film libero che probabilmente oggi sarebbe irrealizzabile con la stessa libertà, ma possibile nella febbre creativa dei primi Sessanta, nella fucina della sperimentazione che era in quel momento la Cecoslovacchia.
Cinema veggente
“Anche quando ha voluto imitare il vecchio mondo, la natura (o il teatro), il cinema ha prodotto dei fantasmi. Copiando la terra mostrava il sole” scrive Paul Éluard. Una delle grandi ricchezze del cinema è quella di farci vedere mondi, situazioni, relazioni sociali che ancora non esistono nella realtà, ma che possono realizzarsi. Nel 1902 Méliès fa viaggiare i suoi spettatori nello spazio sconfinato dell’immaginazione, fin sulla luna. Accanto a questa virtù magica, quasi profetica, il cinema si rinnova costantemente, di decennio in decennio, inventa e codifica nuovi linguaggi, nuovi generi, apre nuovi territori creativi. Nel programma di quest’anno i film fondativi sono tanti.
Iniziamo da un autore dimenticato che celebriamo nel nostro programma, Victorin-Hippolyte Jasset: dal 1908 direttore artistico dell’Éclair, inventa il poliziesco con il detective Nick Carter (1908), le serie con eroi criminali demoniaci come Zigomar (1912), lancia con Protéa (1913) la prima superwoman, scavando consapevolmente le fondamenta del futuro star system.
Il 1922 fu un anno molto importante per la letteratura: videro la luce l’Ulisse di Joyce e La terra desolata di T.S. Eliot; il cinema di quell’anno non fu da meno, con due opere fondative di due generi eternamente moderni, l’horror con Nosferatu di Murnau e il documentario con Nanook of the North di Robert Flaherty.
Sciuscià (1946) non è il primo film neorealista, viene dopo Ossessione (1943) e Roma città aperta (1945), ma è il primo nel quale la relazione tra Cesare Zavattini e Vittorio De Sica si sviluppa pienamente e produce un’opera che è allo stesso tempo realista e magica, con la Roma disperata e ‘americana’ dei mesi immediatamente successivi alla guerra, ma anche trasognata nelle fantasie di due ragazzini lustrascarpe. Per quest’opera così unica l’Academy iniziò a pensare a un premio speciale per i film non statunitensi e il produttore Tamburella ricevette nel 1947 il primo della fortunata serie di Oscar del cinema italiano.
Non è certo un caso se Zavattini venne folgorato dalla visione di Il dio nero e il diavolo biondo (Deus e o diabo na terra do sol), film capostipite del cinema novo, figlio del neorealismo e della nouvelle vague, che influenzerà, per la sua radicalità, Pasolini, perchè mette al centro del racconto e delle invenzioni linguistiche la fame e l’anima primitiva del popolo del sertão. Una ballata cinematografica che si conclude con il cantastorie che spiega che “la terra non è né di Dio né del Diavolo, ma dell’uomo”.
Cinquant’anni fa Gerard Damiano inventa un genere e un titolo che, dallo scandalo Watergate in poi, identifica chi racconta la verità dall’interno di una struttura illecita. Gola profonda (Deep Throat) uscì a New York nel 1972, in Italia arrivò censurato nel 1979, ma fu subito sequestrato. Fu il primo porno ad attirare un pubblico borghese. Oggi sappiamo delle violenze che il marito inflisse alla protagonista Linda Lovelace, della mafia che strappò il film al suo autore e siamo grati ai figli di Gerard Damiano che hanno restaurato il film riportandolo a quello che il padre voleva.
Se esistesse un mappamondo della storia del cinema, Andrej Tarkovskij si collocherebbe nel punto più distante possibile da Gerard Damiano. Grazie al lavoro di CSC – Cineteca Nazionale presentiamo, dopo un complesso restauro, il suo penultimo film, Nostalghia (1983), poema della lontananza e della fede, addio del regista alla sua patria ed elogio della follia, dove assieme a Beppe Lanci inventa una fotografia poetica, mai vista prima, ora in bianco e nero, ora a colori, ora con mezze tinte sospese tra colore e bianco e nero.
Eccesso
L’eccesso è una delle anime del cinema e non a caso il kolossal è il genere che ha fondato l’industria cinematografica e ne ha stabilito codici e regole. Ma nella legge del cinema si direbbe che le regole siano fatte per essere tradite e che la febbre dell’espressione polverizzi spesso le regole del mercato, creando film impossibili e fuori formato. Sempre dal 1922 ci arriva Femmine folli (Foolish Wives), il primo kolossal di Erich von Stroheim, il regista più censurato della storia del cinema. L’immagine del set con la ricostruzione della Place du Casino di Monte Carlo, tra le polverose colline della San Fernando Valley, è perfetta sintesi di una delle anime del cinema, della sua ambizione a essere più grande della vita. Come ricorda Dave Kehr, il film fu pubblicizzato come “il primo da un milione di dollari”: il budget veniva aggiornato ogni settimana su un tabellone di Times Square e Stroheim consegnò una prima versione del film di circa trentuno bobine, che avrebbe poi dovuto ridurre a dieci…
I film eccessivi, ampiamente sopra le tre ore, quest’anno non mancano. Ne citiamo quattro. Il gigante (Giant, 1956) di George Stevens, gigantesco affresco americano, sorta di Via col vento alla texana, quando Hollywood doveva dimostrare di essere molto più grande della televisione per l’ambizione narrativa, il cast, l’uso del CinemaScope. Oggi le parti sembrano essersi invertite, sono le piattaforme a infrangere le regole dello spazio e del tempo del cinema.
Ludwig (1973) di Luchino Visconti: a dieci anni dal Gattopardo, il regista racconta un altro principe, Ludwig II, re solitario ed esteta, “l’ultimo sovrano assolutista che ha preferito governare con l’arte piuttosto che con la politica”, un film in cui Visconti rilegge l’Ottocento, il suo gusto per lo spettacolo, l’arrivo delle lanterne magiche (in questo catalogo mostriamo alcuni vetri meravigliosi provenienti dalla collezione di David Robinson, recentemente approdata alla Cineteca di Bologna). Censurato, ridotto in Germania a 125 minuti, dopo la morte del regista fu riacquistato dai suoi collaboratori che, dopo un lavoro durato tre anni, ristabilirono il montaggio di 237 minuti voluto dal maestro, che presenteremo nella versione restaurata digitalmente.
Eight Deadly Shots (Kahdeksan surmanluotia, 1972) di Mikko Niskanen nasce originariamente come una serie televisiva in quattro parti prodotta e trasmessa dall’emittente finlandese YLE. Grazie al regista e storico del cinema Peter von Bagh, già direttore del nostro festival, che per anni ne ha strenuamente promosso il recupero, possiamo finalmente presentare, in 35mm, il restauro di un indiscusso capolavoro della cinematografia finlandese, fonte d’ispirazione per un’intera generazione di registi, tra cui Aki Kaurismäki. Alcuni l’hanno paragonato alle opere di Béla Tarr, mentre secondo altri, più classicamente, con le sue cinque ore e sedici minuti è quello che sarebbero potuto essere le nove ore della versione completa di Greed.
Infine La Maman et la putain (1973) di Jean Eustache: tre ore e quaranta minuti che volano come un battito d’ali, in un film che contiene l’aria dei primi Settanta parigini, la fine della politica, il desiderio e la fatica della libertà, la ricerca di una nuova morale, di un nuovo linguaggio che vada più in profondità; un’opera che prende a schiaffi non solo i suoi personaggi, ma anche noi spettatori.
Ritrovati al femminile
Tra i documentari segnaliamo Já que ninguém me tira para dançar (2021) di Ana Maria Magalhães, dedicato a Leila Diniz, musa del cinema novo, attrice di teatro e star delle telenovelas della Tv brasiliana. La sua carriera televisiva subì uno stop nel 1969, quando in un’intervista dichiarò che “si può amare una persona e al tempo stesso andare a letto con un’altra. A me è successo”. Tanto bastò per far scattare in Brasile, allora sotto dittatura militare, il cosiddetto decreto Diniz che sbarrò all’attrice le porte della Tv. Morì in un incidente aereo nel 1972, ad appena ventisette anni. Resta il simbolo di un Brasile che voleva cambiare.
Se “i film più belli sono quelli che non abbiamo visto”, Protéa (1913) di Victorin-Hippolyte Jasset è stato per molto tempo uno dei gioielli introvabili della cinefilia ideale. Grazie al restauro della Cinémathèque française abbiamo scoperto un’eroina nata dal cinema e per il cinema (molto rapidamente imitata da tante altre, Musidora, i serial di Pearl White, Ruth Roland, Helen Holmes, ecc.) interpretata, con fredda bellezza, da Josette Andriot, pioniera del travestimento, regina del trasformismo, sportiva completa, capace di nuotare, montare a cavallo e andare in bicicletta.
Nell’epoca del muto si trovano figure femminili di importanti produttrici-attrici come Alla Nazimova (Salomé, 1922-23) e grandi registe come Germaine Dulac (Antoinette Sabrier, 1927, versione 9,5mm). Il passo ridotto e il cinema sperimentale permise alle donne di fare i loro film, da autrici, in maniera indipendente. Nasce così una storia parallela del cinema, vulnerabile nella trasmissione (copie senza negativo in pellicola invertibile, senza distribuzione commerciale). Nella sezione Super8, 9,5mm & 16mm – Piccolo grande passo, potremo vedere tre programmi composti da film sperimentali realizzati in 16mm tra gli anni Ottanta e i primi Duemila da registe tedesche e raccolti da Annette Brauerhoch per l’Università di Paderborn.
Tra le scoperte segnaliamo Iré a Santiago (1964), energico e poetico corto della prima donna regista a Cuba, Sara Gómez (1943-1974); Učiteli (1978), spaccato di una scuola superiore della documentarista bulgara Nevena Toševa; e Avskedet (1982), potente esordio alla regia di Tuija-Maija Niskanen, in un film prodotto dalla compagnia di Ingmar Bergman.
Di Kira Muratova, regista moldava naturalizzata ucraina, presentiamo il restauro dei primi due film che firma da sola, Brevi incontri (Korotkie vstreči, 1967) e Lunghi addii (Dolgie provody, 1971), entrambi per molto tempo invisibili in URSS. Muratova è stata una delle registe più libere nell’inventare immagini poetiche del quotidiano – l’unico paragone possibile è quello con Agnès Varda –, con il suo umanesimo che le consente di raccontare il triangolo amoroso come nessuno aveva fatto prima e dopo di lei, mettendo al centro di Brevi incontri Vladimir Vyssotski, il più popolare cantautore sovietico, voce fortemente critica rispetto al potere moscovita, che introduce la leggerezza di un musicarello col passo della nouvelle vague.
Un’arte performativa
In quest’anno così particolare, in cui celebriamo due centenari, quello di Francesco Rosi, con il restauro di Carmen (1984) e C’era una volta… (1967), e di Pasolini, con una grande mostra che ribalterà tutto quello che credete di sapere sul più profetico poeta e cineasta italiano del Novecento, festeggiamo anche il ritorno del Cinema Ritrovato soltanto in presenza. Perché il cinema sarà anche figlio dell’era della riproducibilità tecnica, ma ogni proiezione è diversa. Un festival non è una piattaforma digitale, ha qualcosa di irriproducibile, e Il Cinema Ritrovato 2022 vivrà tra la fine di giugno e l’inizio di luglio insieme e grazie alle tante persone che assisteranno alle proiezioni.
I film continueranno a vivere e le tante opere ritrovate e restaurate saranno oggetto di retrospettive e dell’arte combinatoria dei curatori e programmatori di tutto il mondo, ma per chi sarà a Bologna sarà impossibile dimenticare le proiezioni a cui avranno assistito. Per questo motivo tanti ospiti eccellenti hanno accettato di presentare un film, da Stefania Sandrelli a Walter Hill, da John Landis a Wes Anderson, da Alice Rohrwacher a Olivia Harrison a Bruce Weber… Per questo tutti i film muti saranno accompagnati dal vivo da musicisti che renderanno uniche le proiezioni del Cinema Ritrovato, sempre che il dio della pioggia ce lo consenta. Altrimenti ce ne andremo Cantando sotto la pioggia…
Abbiamo aggiunto una sala, il Cinema Europa, abbiamo raddoppiato le proiezioni in Piazza Maggiore – saranno ventidue – dal 18 giugno al 10 luglio, e dedicheremo la massima attenzione alla qualità della visione a alla programmazione dei film nelle diverse sale e nelle nostre due piazze, piazza Maggiore e piazzetta Pasolini, dove celebriamo lo spettacolo delle proiezioni con la lanterna al carbone. Nel centenario del Pathé-Baby, allestiremo al Lumière due proiezioni con il proiettore originale. Per chi è troppo giovane per conoscere cosa fosse la vita nell’epoca dei formati ridotti, segnaliamo un film che è un atto d’amore verso il cinema che si diceva a passo ridotto, Et j’aime à la fureur, di André Bonzel, che rivede la sua vita nei filmini degli altri e afferma: “tutto il nostro passato è là perfettamente conservato, siamo una suite che si ripete, non sono che un anello di una lunga catena che si ripete”.
Scritto nel vento
“Mi dispiace, ma io non voglio fare l’Imperatore, non è il mio mestiere. Non voglio governare, né conquistare nessuno. Vorrei aiutare tutti se possibile: ebrei, ariani, neri o bianchi”. È l’inizio del più bel discorso di tutta la storia del cinema, un discorso eterno, il primo discorso che Chaplin scrive per sé, perché, per la prima volta, dieci anni dopo l’avvento del sonoro, vuole parlare, con la sua voce. La prima star mondiale del cinema, Chaplin, un comico, giunto al successo interpretando l’ultimo degli ultimi, ‘the Tramp’, il vagabondo, di fronte alla più immane delle tragedie che si stava profilando all’orizzonte della storia decide di affrontare il suo doppio, l’uomo più odiato del Novecento, Hitler/ Hynkel, che nella realtà era nato quattro giorni dopo di lui, che i baffetti li aveva veramente e che stava per scatenare la guerra più feroce di sempre. Non potevamo che iniziare Il Cinema Ritrovato 2022 con Il grande dittatore, anche se in un dittatore non c’è proprio nulla di grande…
Abbiamo scelto per il manifesto di quest’anno una delle scene più felici di un film memorabile, Il conformista (1970), che rispetta la regola che vuole che le trasposizioni cinematografiche più riuscite di opere letterarie siano anche le più infedeli. Il conformista è un film fondativo che avvia la seconda stagione creativa del giovanissimo Bernardo Bertolucci. Appena ventinovenne, con alle spalle già quattro lungometraggi, inventa un nuovo modo di raccontare il fascismo, di mettere in scena Roma, di lavorare sugli attori, di fotografarli. La scena di ballo resta negli occhi e la prendiamo come stella polare di un’edizione che speriamo ci accompagni a ritrovare il piacere di assistere assieme agli altri alla proiezione cinematografica, con la stessa emozione che gli spettatori bambini di Thamp (1978), il capolavoro di Aravindan Govindan, provano seguendo uno spettacolo circense arrivato nella loro cittadina.
Non potevamo non desiderare che John Landis, il grande John Landis, venisse in Piazza Maggiore, – ovviamente in missione per conto di Dio – per presentare uno dei film peggio accolti dalla critica cinematografica statunitense. Un film che sarebbe piaciuto ai maestri dell’arte comica muta, commistione catastrofica, geniale e irripetibile di musica, commedia, satira. Fortunati coloro che ci saranno. Noi ci saremo!
Ci rendiamo conto di essere arrivati alla fine della nostra introduzione e di non avere ancora detto nulla del film più bello del festival ma, si sa, tutto è scritto nel vento.
Buone visioni!
P.S.: mentre andiamo in stampa ecco una bellissima novità, un regalo dell’ultimo minuto, potremo presentare, dopo la prima di Cannes, il mediometraggio Le pupille, nuovo lavoro di Alice Rohrwacher, girato nella nostra Bologna, tratto da una lettera di Elsa Morante all’amico Goffredo Fofi in occasione delle feste natalizie!