Lezione di Cinema: Jacques Becker – L’idea stessa di libertà
Incontro con Jean Becker, figlio di Jacques, e Bernard Eisenchitz.
Grazie alla retrospettiva nel Cinema Ritrovato dedicata a Jacques Becker, possiamo riscoprire un regista poco mostrato e oggi pressoché sconosciuto al grande pubblico, nonostante possa annoverare nella sua filmografia titoli di grande successo come il noir Touchez pas au grisbi (Grisbi, 1954) e quello che per la critica rimane il suo capolavoro: Le trou (Il buco, 1960).
La lezione di cinema di martedì mattina è stata l’occasione per approfondire alcuni aspetti della personalità e delle opere di quest’autore del cinema classico francese. A condurci nel mondo di Becker, ecco le parole del figlio Jean, che ha seguito le orme del padre (pur se da lui sconsigliato, ci tiene a far sapere) facendo il regista, e del curatore della rassegna Bernard Eisenschitz.
Il primo argomento affrontato è stato il rapporto molto stretto che il cineasta ebbe con Jean Renoir, per cui fu aiuto regista oltre che attore (compare in piccoli ruoli in sei dei suoi film compreso il celebre La grand illusion). Nonostante questa stretta relazione tra i due, lo stile di Becker nei suoi film è molto personale, privo di evidenti debiti stilistici nei confronti del più famoso connazionale: la sua regia è semplice e diretta, attenta alla psicologia e alla dimensione esistenziale dei suoi personaggi, e la sua opera può essere considerata un trait d’union tra il cinema francese della tradizione e la rottura rappresentata dalla Nouvelle Vague.
Tra l’apprendistato con Renoir e i due mediometraggi realizzati per il Partito Comunista a metà anni ’30, l’esordio del regista al lungometraggio avviene con Dernier atou (L’ultima possibilità, 1942). Regista appassionato, Becker ha dimostrato di saper lavorare anche in condizioni difficili, è il caso di Falbalas (Id., 1944) girato negli ultimi mesi prima della Liberazione, racconta una storia dove la guerra e l’occupazione tedesca è come se non esistessero, nonostante il set fosse dominato dall’incertezza e dall’angoscia per la situazione politica.
L’opera dove i ricordi del figlio Jean si fanno più precisi è certamente Rendez-vous de Juillet (Le sedicenni, 1949), forse perché partecipò alle riprese insieme al fratello e fu direttamente ispirazione per il padre (aveva la stessa età dei personaggi del film) nel suo racconto di questa gioventù del primo dopo guerra piena di speranza, che guardava all’America con ammirazione ed entusiasmo, aveva voglia di viaggiare fuori dalla Francia, ascoltava e suonava il jazz. Forte, da parte di questi ragazzi, il sentimento di contrapposizione con la generazione precedente, un conflitto che da un punto di vista cinematografico sarebbe esploso solo pochi anni più tardi con la Nouvelle Vague.
Quello che traspare dalla conversazione è la grande versatilità di Becker, la capacità di variare stile e tono di film in film. La sua preoccupazione principale, ricorda Jean, era quella di trovare il giusto approccio a seconda del soggetto, e non sarebbe corretto identificarlo solo come un regista di grande eleganza e compostezza formale, al contrario: il suo è sempre stato un cinema di emozioni forti, come la cruda storia d’amore e violenza di Casque d’or (Casco d’oro, 1952), uno dei suoi maggiori successi.
Certo, come si nota osservando l’incipit (mostrato all’incontro) di Antoine et Antoinette (Amore e fortuna, 1947), colpisce la maestria tecnica del regista con movimenti di macchina di grande fluidità, “un inizio esemplare per la velocità e il ritmo, con un montaggio incalzante tipico dei film americani, ma con allo stesso tempo la capacità di raccontare in pochi dettagli alcune peculiarità dei personaggi in scena, a cominciare dal rapporto di ognuno col proprio lavoro”.
Più altalenante fu invece il rapporto di Becker con i suoi attori, perché non amava dirigerli, ma preferiva parlare della sua idea della scena e del personaggio, cercava insomma un punto d’incontro sulla visione del film. Serviva dunque una certa sintonia, umana oltre che professionale, che non era automatico trovare, mancò con Fernandel in Ali Baba et les quarante voleurs (Alì Babà, 1954), fu invece buona con Gérard Philippe (che interpretò Amedeo Modigliani in Montparnasse 19 (Montparnasse, 1958) e ottima con Jean Gabin che diresse nel cupo e introspettivo Touchez pas au grisbi, definito da François Truffaut “il miglior film noir di sempre”. Un’opera quest’ultima che segna l’esordio del figlio come assistente alla regia, un ruolo che mantenne fino all’ultimo lavoro del padre, Le trou, concluso nello stesso anno della prematura morte, il 1960. Proprio le riprese di questo film – l’indimenticabile racconto di un tentativo di evasione, girato con attori non particolarmente conosciuti, ma “con la faccia giusta” – misero a dura prova Becker, già malato, tanto che Jean ci rivela come più di una volta si trovò a sostituirlo come regista sul set. L’aspetto che l’autore più amava di questa storia era “la debolezza, spesso inspiegabile, dei personaggi”.
Le trou fu un insuccesso di pubblico, mentre ottenne il plauso della critica. Con un velo di commozione il figlio ricorda le parole che il padre gli disse a montaggio terminato: “questa volta credo di avercela fatta”, una frase di completa, per quanto molto misurata, soddisfazione che nessuno, dato il noto perfezionismo del regista, gli aveva mai sentito pronunciare prima.
Jean Becker conclude l’incontro con questa immagine piena di ammirazione per il padre, parlando di questo film, che è “un ricordo magnifico e doloroso a un tempo”.
Luca Giagnorio, Il Cinema Ritrovato News