Il Cinema Ritrovato | Fuori Sala #14
“Il Genocidio armeno, un genocidio terribile, che è costato la vita a oltre un milione e mezzo di persone, e che il governo turco continua a negare, come ha sempre fatto. Questa è una delle ragioni per cui le testimonianze di quel genocidio sono molto rare. Una delle anime del cinema è sicuramente la sua capacità di registrare la realtà. E di arrivare, con poche immagini, diritto al nostro cuore”.
Quindicesima puntata della rubrica online “Il Cinema Ritrovato | Fuori Sala”, alla scoperta di piccole perle di cinema conservate nei nostri archivi (guarda gli episodi precedenti).
Il Genocidio armeno, un secolo dopo. Un ricordo che le immagini testimoniano in modo indelebile: immagini di esodi, di povertà, immagini di bambini, donne e uomini in cerca di un rifugio.
Un mosaico che questo collage, girato tra il 1919 e il 1923, cerca di ricostruire – in assenza di documenti visivi diretti dei momenti del massacro – attraverso immagini rarissime, riscoperte nel 2015 in occasione del Il Cinema Ritrovato.
I frammenti di Armenia. Cradle of Humanity rappresentano la drammatica testimonianza della devastazione in cui si trovava la popolazione sopravvissuta al Genocidio del 1915: profughi in fuga da Istanbul (con ogni probabilità verso la Grecia), molti dei quali certamente orfani: si riconosce infatti sullo sfondo il palazzo Kuleli, all’epoca orfanotrofio per gli Armeni. In primo piano, un barcone stracolmo, che ricorda fin troppo da vicino quelli che vediamo oggi, sempre nel nostro Mediterraneo.
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Guarda l’introduzione e il film cliccando sull’immagine:
Chi scrive di cinema spesso ha l’aria di sapere tutto lui: i giudizi, per quanto aperti sulla carta alle possibilità del dialogo e del contraddittorio, generalmente non ammettono replica. È con un certo senso del dovere che in questo caso facciamo un passo indietro e scopriamo le carte: nei confronti di questo film la nostra ignoranza sfiora l’imbarazzo. Con tutta probabilità non è neanche “un film”, ma un assemblaggio di riprese diverse realizzate in epoche diverse. Chi l’ha girato, e chi lo ha messo assieme nella forma che è arrivata fino a noi? E perché? Nemmeno alla Library of Congress, l’archivio di Washington da cui proviene il materiale originario, hanno indizi consistenti. E ancora: dove ci troviamo esattamente? E quando? Anche il cartello che compare in apertura è sospetto: “Armenia the Cradle of Humanity under the Shadow of Mount Ararat”. Guardando le immagini successive, ti coglie l’impressione che sia una dichiarazione dal forte potere evocativo ma sostanzialmente ingannevole. O forse inconsapevolmente troppo esatta: se c’è una culla, ora è vuota, e l’unica cosa che accoglie è un dolore che non puoi descrivere. Questo è uno di quei casi in cui ci troviamo a invocare l’aiuto di un bravo storico.
Certo, si potrebbe dire che le immagini “parlano da sole”. Sono volti che aprono abissi di disperazione, sacchi colmi di vite eternamente in transito, ammassi di persone senza un nome e senza un luogo proprio, mezzi di trasporto che sembrano girare a vuoto in un mondo dove a regnare è lo sradicamento, braccia che ti afferrano e ti costringono a scendere e a salire. Sono immagini che possiamo montare mentalmente con quello che i mezzi di comunicazione ci permettono di vedere sui migranti e i deportati del nostro presente, per alimentare il nostro sdegno doveroso e precariamente costruttivo. Per una volta, non sono immagini di cui godere. Andrebbero guardate in silenzio, almeno una volta. E magari con uno storico a fianco, la volta successiva.
Andrea Meneghelli
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