25/06/2016

BRANDO vs. KUBRICK vs. PECKINPAH: IL TRAVAGLIATO ‘ONE-EYED JACKS’

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Se scrivere, produrre, dirigere e interpretare un film fosse “affare da poco” o non fosse un incredibile lavoro di squadra, forma d’arte collettiva se ce n’è una, forse One-Eyed Jacks (I due volti della vendetta in italiano) sarebbe entrato di diritto nell’empireo dei grandi western; forse tutti oggi lo conoscerebbero e non ci sarebbe il piacere e la curiosità di (ri)scoprirlo, come si potrà fare in Piazza Maggiore domenica 26 o in replica mattutina al cinema Arlecchino giovedì 30.

Stanley Kubrick alla regia, Sam Peckinpah alla sceneggiatura, Marlon Brando attore protagonista: che film avrebbe potuto essere, riuscite a immaginarlo?

Di certo sarebbe stata un’opera indimenticabile, tuttavia, forse non casualmente, One-Eyed Jacks ha comunque lasciato un segno nelle diverse carriere dei tre miti del cinema: rimane l’unico film diretto da Brando; nello stesso anno, il 1961, uscirà anche La morte cavalca a Rio Bravo, l’esordio alla regia di Peckinpah; Kubrick, scottato dal licenziamento sul set, non dirigerà mai un western, casella mancante nelle sue personali e ispiratissime escursioni attraverso i diversi generi cinematografici.

Tre nomi importanti, tre caratteri forti e non privi di asperità, probabilmente troppo per venirsi incontro e attuare dei compromessi. Eppure all’epoca non si trattava di uomini di pari prestigio come viene automatico pensare oggi: mentre Brando era già star di prima grandezza e premio Oscar, Kubrick era un autore emergente (di qualche anno prima sono Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria) reduce dal successo commerciale di Spartacus (e anche dai problemi con i produttori e con Kirk Douglas), ma non ancora assurto al ruolo di maestro della Settima Arte, e soprattutto Peckinpah era un semi sconosciuto sceneggiatore aspirante regista ancora in attesa del suo, pur imminente, esordio.

Dunque un progetto meno complicato all’epoca di quanto non possa apparire oggi: che cosa successe allora? Non è possibile saperlo con esattezza e le fonti sono contrastanti. Certo è che Brando, detentore dei diritti del romanzo The Authentic Death of Hendry Jones di Charles Nedier, decise di affidare la sceneggiatura a Peckinpah che, non può sorprendere, fece scelte volte a demistificare la figura dell’eroe invincibile tanto cara all’immaginario del vecchio West e si scontrò con il divo che non voleva invece che il suo personaggio morisse sullo schermo. Per la regia fu ingaggiato nel 1958 (tanto fu lunga, come si può capire dalle date, la preparazione del film) Kubrick, che però, non apprezzando il lavoro di Peckinpah, decise di riscrivere lo script affidandosi a Calder Willingham (con cui aveva collaborato per Orizzonti di gloria e, non ufficialmente, per Spartacus) sempre sotto la supervisione di Brando. Tuttavia, dopo sei mesi di gestazione, le divergenze tra regista e attore protagonista divennero insormontabili e Kubrick abbandonò con Willingham il progetto senza che ancora ci fosse una versione definitiva della sceneggiatura. Già molto esposto economicamente (in qualità anche di coproduttore), Brando dovette affrontare l’emergenza facendo concludere la fase di scrittura a Guy Trosper e, dopo aver tentato invano di coinvolgere per la regia Elia Kazan e Sidney Lumet, si assunse l’onere di dirigere oltre che interpretare il film.

Una produzione tanto travagliata, così come un altrettanto traumatico montaggio (la versione originale di Brando era di oltre quattro ore, poi ridotta a due ore e venti), non potevano non avere impatto sull’opera, che all’epoca fu accolta in Italia con giudizi negativi – da Alberto Moravia, che su L’Espresso sottolineò l’eccessiva convenzionalità nella riproposizione dei più classici luoghi comuni del western, ad Adriano Aprà, che su Filmcritica, oltre alla fragilità della messa in scena, imputa a Brando anche una recitazione troppo monocorde – mentre in seguito si è andati incontro alla rivalutazione di un film sicuramente diseguale, ma che rimane (per dirla con Paolo Mereghetti) “un western affascinante, almeno quanto il suo regista e interprete”.

Luca Giagnorio, Redazione Il Cinema Ritrovato