Alla Ricerca del Colore dei Film 2010
IN THE MOOD FOR COLOUR
Questi anni disastrosi in cui viviamo, almeno un merito lo hanno avuto, ci stanno restituendo la lucentezza e la molteplicità dei colori di cento anni di cinema.
Il colore cinematografico, chimera di tutti gli sperimentatori che, fin dai primi vagiti, immaginarono un cinema colorato; se ancora non era possibile registrarlo s’inventavano il pennello, l’imbibizione, il viraggio; e poi il pochoir.
Il colore doveva servire ad avvicinare il cinema alla realtà, ma è evidente che, al contrario, lo allontanava: meraviglioso principio d’infedeltà, solo il tempo, in un film, è più falso dei suoi colori!
Forse, proprio questo principio condiviso di falsificazione è alla base della creazione di un codice non scritto e genera una relazione tra schermo e spettatore a un livello più intimo e ‘segreto’. In questa relazione, gioca un ruolo importante anche la grandezza dello schermo. Le scarpette di Red Shoes, non hanno lo stesso impatto se viste su un grande schermo o in televisione. L’intimità passa anche dalla grandezza.
I colori, così fuggevoli ed ingannevoli, lontani dalla realtà, diversi da copia a copia, da proiezione a proiezione, sono una bussola straordinaria per indicarci dove ci troviamo, quando il film che stiamo vedendo è stato girato. I colori di un film degli anni ‘10, o degli anni ‘40 o ‘70 o ‘90, tradiscono immediatamente la loro epoca, più della messa in scena, degli attori, delle formule stilistiche.
Che cos’hanno tra loro in comune opere distantissime come Senso, Il Gattopardo, Jubal, Picnic, Johnny Guitar, African Queen, … di essere stati realizzati in un brevissimo fazzoletto temporale, 54 – 63, nell’età d’oro del cinema e della sperimentazione cromatica. A parte gli anni del muto, l’epoca del Technicolor è quella che, nella memoria collettiva, meglio identifica una stagione cromatica; il giallo di Cantando sotto la pioggia è certamente uno dei colori chiave degli anni ‘50; perché i colori dei film corrispondono, nella nostra memoria collettiva, a quelli della società di quegli anni.
I film che presentiamo quest’anno, nella parte sonora, hanno tra loro altre affinità, i loro autori usano il colore in maniera molto esigente, coaudivati da direttori della fotografia e da costumisti di primissimo piano; John Huston, Luchino Visconti, Delmer Daves, Nick Ray sono nati in date molto ravvicinate, tra il 1904 e il 1911, in sette anni. Avevano formato il proprio gusto con una rappresentazione ottocentesca del mondo, con colori sostanzialmente diversi da quelli che conosciamo noi oggi, influenzati dalla relazione con la pittura. E il Technicolor cos’è, se non il sistema più ottocentesco di un’arte ottocentesca? Tecnologicamente è abbastanza vicino al Pochoir, che utilizza, per stampare il cromatismo sulle copie in bianco e nero, lo stesso tipo di colore, le aniline.
Il folle Trucolor di Johnny Guitar, il meraviglioso Technicolor europeo di Senso, l’Eastman iperelaborato del Gattopardo, le mezze tinte del Technicolor americano di Picnic non sono l’anima di quei film, il sentimento più profondo e inconscio che ce li fa ricordare perché toccano delle zone intime della nostra percezione sensoriale?
Alla fine del 2008, Martin Scorsese ci ha affidato l’impegnativo lavoro di restauro di Senso, che si è appena concluso con la stampa della copia che proietteremo al festival di quest’anno. Per diciotto mesi Scorsese ha inseguito un certo numero di ricordi, per lui fondativi e indelebili, come il rosso dei fiori gettati in platea dai palchi, nell’inizio del film, l’oro e il candore delle giubbe asburgiche. Ricordi molto netti, che corrispondono ai materiali d’epoca che sono arrivati a noi e che hanno guidato il nostro restauro.
Che cosa ricordiamo di un film? Certo, una trama, un attore, delle battute, una situazione, uno stile, … Ma nel gioco del ricordo che ci tiene attaccati per decenni a dei fotogrammi, che parte giocano i colori? Non è forse il Mood cromatico di un film, l’aspetto più segreto ed intimo della nostra relazione con il cinema che abbiamo amato?
Gli incredibili colori delle camicie degli interpreti di Johnny Guitar, la veste bianca di Katharine Hepburn, che perde il suo candore durante African Queen, le tenute militari dei soldati della 317, subito rese grigie dall’umidità dell’Indocina (perché anche un film in bianco e nero può avere una relazione con il colore), le calottine candide di Cuffie olandesi, del 1910, i saloni dorati della festa nel finale de Il Gattopardo, l’abbrozatura di William Holden in Picnic, i cieli e la campagna di Jubal, ma possiamo continuare nella retrospettiva dedicata a Stanley Donen, maestro del colore, con il cielo e la lucentezza dei grattaceli della sua New York non sono la materializzazione del nostro ricordo più profondo di tutti questi film?
(Gian Luca Farinelli)
Programma Il Colore nel Muto a cura di Mariann Lewinsky
Programma Alla ricerca del colore dei film a cura di Gian Luca Farinelli e Peter von Bagh