The Film Foundation’s World Cinema Project 2016

“Noi cubani siamo vittime dell’immagine che gli altri hanno di noi – scriveva Edmundo Desnoes, autore del romanzo Memorie del sottosviluppo – ci vediamo come ci vedono dai paesi industrializzati, o come ci vorrebbero vedere”.
Largamente impiegato per descrivere un cinema prima ‘non americano’ e poi ‘non occidentale’, il discorso, talvolta ambiguo, sul world cinema, ha finito spesso per rafforzare un punto di vista occidentale, e culturalmente egemonico, sul mondo. In questo senso, sono state spesso trascurate la grande diversità, unicità e ricchezza delle cinematografie chiamate in causa, relegate a una posizione marginale e di resistenza.
Il world cinema così concepito non è distante dal ‘Terzo Cinema’ teorizzato da Fernando Solanas e Octavio Getino nel celebre manifesto Hacia un tercer cine (1969). “Il Terzo Cinema [contrapposto al Primo, il modello hollywoodiano e al Secondo, il cinema d’autore] è un progetto politico ed estetico rivoluzionario e militante per origine, natura e finalità”. La divisione binaria ‘centro vs. periferia’ appare oggi insufficiente a raccontare la realtà: la riconfigurazione delle geografie mondiali sotto la spinta dei flussi migratori, e una sempre maggiore democratizzazione digitale del cinema (transnazionale per eccellenza dalla sua nascita) invocano necessariamente un nuovo paradigma critico ibrido, inclusivo, trasversale alle traiettorie estetiche e alle prospettive culturali e politiche. Non deve stupire allora che tra i restauri di quest’anno figurino anche due maestri celebrati come Hou Hsiao-hsien ed Edward Yang che con due opere seminali (legate a doppio filo dalla rispettiva contaminazione artistica) e diversamente debitrici al cinema europeo e in particolare italiano, hanno saputo esprimersi in un linguaggio innovativo e lucido in grado di raccontare le complessità e i paradossi di un paese apolide. Un nuovo campo d’indagine, osserva Rosenbaum, che comporta una “rimappatura dello spazio, in cui convivono colonizzati e colonizzatori: il Confucianesimo e il capitalismo, la democrazia, il socialismo, la Cina con il Giappone e l’America, l’identità personale con quella corporativa e nazionale”. Altrettanto lucida e onesta l’opera di Tomás Gutiérrez Alea, che a nove anni dal rovesciamento di Batista trova la giusta distanza per realizzare un film autenticamente libero, pur all’interno dei limiti imposti dal regime castrista. Alla soggettività del protagonista (a metà tra Antonioni e Dostoevskij), ai suoi ricordi, al suo monologo interiore, si alternano documenti storici – materiali d’archivio, cinegiornali, riprese dal vero. L’alternanza di questi due piani dà vita alla tensione critica di Memorie del sottosviluppo, una ‘conversazione sulla Rivoluzione’ onesta, antimanichea, polemica. Forse il film che meglio di tutti è riuscito a raccogliere e interpretare attraverso una visione finalmente ‘cubana’ tutte le particolarità della storia e della cultura nazionali. Un sincero ringraziamento a Margaret Bodde, Jennifer Ahn, Kristen Merola e Maria Paleologos.

Cecilia Cenciarelli

 

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