LA CAMPAGNE DE CICÉRON

Jacques Davila

Tr. let.: La campagna di Cicerone; Scen.: Jacques Davila; Adat.: Jacques Davila, Michel Hairet, Gérard Frot-Coutaz; F.: JeanBernard Menoud; Mo.: Christiane Lack; Scgf.: Jean-Jacques Gernolle; Mu.: Bruno Coulais; Su: Gérard Lecas; Int.: Tonie Marshall (Nathalie), Sabine Haudepin (Françoise), Jacques Bonnaffé (Hippolyte), Michel Gautier (Christian), Judith Magre (Hermance), Jean Roquel (Charles-Henry), Antoinette Moya (Simone), Carlo Brandt (Simon), Jean-Jacques Moreau (il regista); Prod.: Nicole Azzaro, Guy Cavagnac, Jacques Leclère, Jean Petit per Les Ateliers Cinématographiques Sirventes, Les Films Aramis; Pri. pro.: 14 marzo 1990. 35mm. D.:107’. Col.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Terzo e ultimo lungometraggio di Jacques Davila, alla sua uscita La Campagne de Cicéron fu lodato da Eric Rohmer che vi vide il segnale di un rinnovamento del cinema francese contro l’estetica dominante degli anni Ottanta. Film di villeggiatura, come lo fu al suo tempo Les Dernières vacances di Roger Leenhardt, si inserisce tuttavia in una certa tradizione, allora coltivata dai registi riuniti attorno a Paul Vecchiali e alla società Diagonale: Gérard Frot-Coutaz, Jean-Claude Biette, Marie-Claude Treilhou e lo stesso Davila sono ugualmente sensibili alla qualità dei dialoghi, molto letterari, e alla recitazione (d’altronde buona parte degli attori de La Campagne de Cicéron viene dal teatro). “Vaudeville che finisce male”, per riprendere l’espressione di Davila, La Campagne de Cicéron cede anche alla tentazione del burlesque – caso abbastanza raro nel cinema francese da meritare di essere segnalato – arrivando a citare esplicitamente Keaton e Tati. La Campagne de Cicéron è una delle esperienze più riuscite di quel decentramento cinematografico che costituì uno degli assi portanti della politica culturale del ministro Jack Lang dopo la vittoria della sinistra nel 1981. Nel Midi-Pyrénées il decentramento prende la forma di una casa di produzione battezzata ACS (Ateliers cinématographiques Sirventès) diretta da Guy Cavagnac. In poco meno di dieci anni vedono la luce una quarantina di cortometraggi e cinque lungometraggi, prima della messa in liquidazione della società avvenuta poche settimane prima dell’uscita commerciale di La Campagne de Cicéron. Queste difficoltà spiegano in parte la totale scomparsa del film, poiché pare che tutte le copie stampate nel 1990 siano state distrutte. Ennesima prova della necessità impellente di considerare il cinema dei passati quarant’anni come un patrimonio, prezioso quanto il cinema muto, da salvaguardare d’urgenza.

Christophe Gauthier, Cinémathèque de Toulouse

 

Caro Jacques Davila, ho visto il suo film. È stato un incanto. Ancora di più: uno choc. Della stessa natura di quello che ho sentito, una sera del 1946 o 7, allo studio Raspail, alla proiezione delle Dames du bois de Boulogne. Come Les Dames fu un film-faro degli anni 50, sono persuaso che La campagne de Cicéron lo sarà degli anni 90. Non si sorprenda di questo accostamento. Lo so: questi due film non hanno molti punti in comune; credo anche che lei si sia sbarazzato in modo migliore di chiunque altro di questi miasmi bressoniani che aleggiano ancora nel cinema francese d’autore. Ma, nell’uno e nell’altro caso, si respira nell’opera un’aria di novità indiscutibile e trionfante. Come Bresson, nel 1945, metteva in discussione il “realismo poetico” d’anteguerra, così lei spazza via in un colpo solo l’estetica alla moda (e già démodée) degli anni 70-80: quell’espressionismo, quella teatralità che si spacciava per stile, quel culto della fotografia pubblicitaria che non aveva nulla a che vedere con la pittoricità, quella povertà della narrazione e dei dialoghi che non denotava chissà quale modernità, ma l’impotenza pura e semplice. Lei, lei ci porta il rigore, l’invenzione, l’intelligenza, la poesia (quella vera, non quella dei video-clip), la verità, la bellezza delle parole, dei gesti e, merito non inferiore, dopo tanti anni lugubri, finalmente, l’umorismo. Il suo film mostra che, non soltanto il cinema non è “finito”, ma che il mondo che scruta e visita non ha finito di rivelarci i suoi splendori quotidiani. È uno di quei film che ci insegnano a vedere e ci danno la voglia di dire come Rimbaud: “Maintenant, je sais saluer la beauté”.

Eric Rohmer, Lettre à Jacques Davila, “Cahiers du Cinéma”, n. 429, marzo 1990

Restaurato nel 2009-2010 dal laboratorio L’Immagine Ritrovata, con il sostegno della Fondazione Groupama-Gan pour le Cinéma a partire da un negativo immagine super-16mm e da un negativo suono magnetico conservati alla Cinémathèque de Toulouse