Viva Macmahon
Che cos’è il «MacMahon, oggettivamente? È una sala cinematografica situata in avenue MacMahon, vicino all’Etoile. In quel cinema sono state proiettate regolarmente versioni originali, le migliori visibili a Parigi. Ecco un «MacMahon» oggettivo. Ma l’oggettività mi annoia. Così, preferisco il mio sentimento personale del MacMahon. Infatti, il MacMahon di cui parlo non è mai stato il «MacMahon», ma questa sala arbitraria, diventata leggendaria, in cui ho scoperto la maggior parte dei film che amo, nelle proiezioni pubbliche e in quelle private, che dobbiamo alla gentilezza eclettica del suo direttore, Emile Villion.
[…] Ciò di cui il «MacMahon» si trova ad essere il luogo d’incontro geometrico non è il cinema, ma un’idea di cinema. Si capisce che questo non impegna a niente, se non, forse, all’amicizia. L’amicizia forse non è altro che un’esigenza condivisa. Di conseguenza, «MacMahon» non è affatto una scuola che si stringe ad imbuto, ma piuttosto un punto di partenza, questo imbuto all’inverso.
Il «MacMahon», attorno al 1954, era il ritrovo fortuito, vicino all’Etoile, di persone che amavo e di altre che avrei amato; di film che conoscevamo, o che aspettavamo, o che scoprivamo e che avremmo amato assieme. Allora, è una nuova forma di snobismo essere «MacMahoniano»? Ci sono sempre etichette pronte, per chi cerca la bellezza, quest’altro nome per dire verità. Un giorno, è un onest’uomo, un altro, un figlio del re. Adesso che esiste il cinema, perché non può essere un «MacMahoniano»? Il nome di sicuro passerà, tutti i nomi passano. La bellezza resta. Non mi sembra importante chiedere: come si può essere «MacMahoniani»? La cosa importante è cercare: come si può essere Raoul Walsh? Come Fritz Lang, come Joseph Losey? Non lo so ancora. So solo che essi sono, nient’altro. Il bello è l’evidenza del bello, proprio qui sta il paradosso. Il «MacMahonismo» non è una risposta facile, troppo facile; è una domanda esigente. La domanda, signori, resta aperta.
Jacques Serguine, Cahiers du cinéma, n. 111, set. 1960