La Grande avverntura di Raoul Walsh

Dopo gli omaggi a Josef von Sternberg, Frank Capra, John Ford e Howard Hawks, ecco il nome che rappresenta l’avventura e il cinema puro, l’azione e la meditazione, lo spettacolo e il silenzio: Raoul Walsh (1887-1980). Come ha scritto Jean Douchet, i film di Walsh sono “un’avventura interiore”: “Questo shakespeariano passionale è un regista intensamente fisico perché dipinge prima di tutto il tumultuoso mondo mentale”. Il nostro programma si compone di una selezione di film muti, importanti quanto spesso trascurati, e di alcuni tesori del periodo sonoro, a partire dalla magnifica avventura in formato panoramico di The Big Trail del 1930.
A Hollywood Walsh fu un ribelle solitario: rifiutò la rete di sicurezza delle ‘sceneggiature di ferro’ e creò ondate di idee ‘intraducibili’. Era un custode leale (senza il controllo e il prestigio di un Ford o di un Hawks) del cuore puro e irriducibile dell’epoca di Griffith, e modernista per istinto. Anche se lavorò sempre all’interno del sistema, era più vicino allo spirito di Stroheim o di Ingram e ritornava sempre al sogno originario della libertà creativa.
Il suo amico Errol Flynn descriveva questo atteggiamento come un “fondamentale entusiasmo” per “tutte le cose semplici della vita: respirare, mangiare, bere, pescare, scherzare, spassarsela e tutte le altre cose che cominciano con la s”. Walsh interpretava nel modo più naturale, spontaneo e rilassato qualsiasi genere, infrangendone le convenzioni: questo stato di indisciplinata felicità è un elemento essenziale dei suoi film.
Sapeva trattare il film d’azione (il western, il film di guerra) svuotandolo completamente d’azione. Possedeva un mirabile senso dell’assurdo: solo in un film di Walsh possiamo leggere la didascalia “la migliore guerra a cui abbia mai assistito”, e solo Walsh può far passare frasi come “Charmaine era affascinata dalla visione dei soldati che si avviavano alla morte” mantenendo una profonda serietà. La guerra, spesso un tema disincarnato, ispira a Walsh una dialettica inimitabile di farsa e nausea (come in What Price Glory). Walsh sa essere altrettanto duro con la società e con la natura umana, che stia parlando di un ring, di un’impresa commerciale o della primitiva accumulazione di denaro in una città del West. Ma sotto questa durezza pulsano un erotismo e una vitalità che infondono energia a tutto: attori, genere, trama. Per non parlare del concreto senso della natura, spesso descritta come uno spazio meraviglioso percorso dal fremito di una morte grottesca.
La fantasia futuristica di The Thief of Bagdad, con i suoi cavalli alati, dice tutto del boom finanziario e delle illusioni degli anni Venti. Le crisi isteriche che caratterizzano molti film più tardi esibiscono la crudeltà in cui si radica la ricchezza americana: con le sue storie di psicopatici Walsh è stato un lucido osservatore della nevrosi del secolo, che declinò anche nel suo equivalente romantico di amore e morte.
Walsh aveva un talento straordinario per l’osservazione dell’ambiente sociale. Come scrisse Manny Farber, sapeva “rendere poetico un malinconico, livido ambiente piccoloborghese”. Farber aggiunge che Walsh è “cugino del Renoir di Toni, del Vigo de L’Atalante, del Brassaï fotografo di strada: un cugino devoto alla gente, più vivace e giocoso dei suoi equivalenti francesi”. Pochi hanno saputo evocare il senso del ventesimo secolo in modo altrettanto bello e tangibilmente vivo.

(Peter von Bagh)

Programma a cura di Peter von Bagh