Il film noir francese: carte blanche a Bertrand Tavernier

Ai cineasti francesi è sempre piaciuto flirtare con il nero. Un nero influenzato, nutrito dalle devastazioni della Storia (il macello del ‘14-’18, il disastro del ‘40). Un nero che trova le proprie radici in un’intera tradizione letteraria, da Mirbeau a Zola, da Maupassant a Jules Renard (scrittori molto amati da Clouzot e Duvivier), che ha ritrovato nuova forza con l’evoluzione del romanzo criminale – da Simenon alla Série noire – e delle sue derive esistenziali. Il nero poteva essere anche un modo di opporsi all’universo rosa, all’happy end dei produttori, dei finanziatori, all’ottimismo mendace delle ideologie ufficiali: quella di Vichy, naturalmente, che Le Corbeau sovverte con violenza, ma anche quella del realismo socialista con i suoi eroi positivi. La Ferme des sept péchés, in questo senso, è di una modernità incredibile: la violenza, la generosità e la precisione della denuncia sociale alla quale Courier si dedica non gli impediscono di essere violento, avaro, attaccabrighe, una contraddizione all’epoca impensabile per un personaggio di questo genere. Anche Quai des Orfèvres, con la sua feroce asprezza, attacca di sfuggita molti luoghi comuni, così come La Vérité sur Bébé Donge. La regia di Decoin evoca quella di certi grandi film noir americani (Preminger) – mentre Danielle Darrieux ci riporta alla mente le protagoniste di Laura o Where the Sidewalk Ends. La Vérité sur Bébé Donge sorprende per la forza femminista del suo intento. Questo lo differenzia dalla maggior parte dei film americani dello stesso genere, molto più manichei nel loro approccio ai personaggi femminili. È proprio un trattamento più crudo, più adulto e più quotidiano delle problematiche sentimentali o sessuali a distinguere i film noir francesi dai loro omologhi americani: il personaggio di Simone Renant in Quai des Orfèvres non ha equivalenti a Hollywood, mentre la protagonista di La Ferme des sept péchés si permette spettacolari strappi alla regola. Ma c’è anche un approccio più intimo ai soggetti. I cineasti francesi concentrano l’azione intorno a un luogo principale – un ristorante, una casa con il suo cortile, una fattoria – con qualche indimenticabile fuga: la balera di Voici le temps des assassins, il music hall di Quai des Orfèvres. Nessun peregrinare, né grandi distanze: queste sono caratteristiche americane. Qui ci s’interessa piuttosto ai mondi chiusi. Il nero quotidiano può sfociare su abissi insondabili. A confronto di Danièle Delorme, le americane fanno la figura delle bambine. La conclusione del film, poi, supera di gran lunga gli autori più cupi. Eppure non c’è alcuna ostentazione in questo atteggiamento. Il nero, che si farà a volte insistente e troppo marcato in cineasti meno dotati o in sceneggiatori troppo teorici (uno dei difetti di Jacques Sigurd), in compenso è parte organica della visione e dell’approccio di grandi autori come Clouzot e Duvivier. Ed è la ragione d’essere dei loro film. Tanto più che essi sanno stemperare il pessimismo in prodigiosi momenti di realismo sociale (la descrizione di Les Halles e del ristorante di Gabin in Voici le temps des assassins è magistrale, al pari di quella degli universi attraversati da Jouvet in Quai des Orfèvres) e, più paradossalmente, di tenerezza e compassione. Lampi folgoranti, per i quali vale la pena restare aggrappati a questa vita da cani.

Bertrand Tavernier