Gösta Werner, il senso dalla perdita

Programma a cura di Olaf Möller e Jon Wengström

Quando Gösta Werner ha festeggiato il suo centenario, nel 2008, Il Cinema Ritrovato lo ha onorato in maniera tanto insolita quanto consona alla sua vita e alla sua opera. Il festival ha proiettato quello che è probabilmente il cortometraggio più famoso di Werner, Att döda ett barn (1953), seguito dalla presentazione di alcuni suoi libri di cinema, come Mauritz Stiller och hans filmer: 1912-1916 (1969). In un certo senso entrambe le opere si interessano alla natura della perdita. Gösta Werner è mancato l’anno dopo, all’età di centouno anni. Perché parlare oggi di Werner? Il senso di perdita non è forse estraneo a questa scelta. Riesce difficile oggi immaginare una figura come la sua: uno storico importante che è stato anche un celebre regista. Potremmo definirlo un cineasta sempre pronto a sperimentare, per il quale la vita era un viaggio fatto di intuizioni e di scoperte, alcune delle quali furono da lui ritenute meritevoli di essere espresse a parole. Per Werner il cinema era tante cose, e si divertì a sperimentarle tutte (il più possibile), concretamente. Appare significativo che il formato d’elezione di Werner fosse il cortometraggio: certo, girò una mezza dozzina di lungometraggi di finzione (Gatan, del 1949, è un gioiello di torbido realismo noir con qualche tocco surreale), ma le sue opere principali furono lavori su commissione, come Att döda ett barn, che fu finanziato da una compagnia di assicurazioni e la cui visione è stata a lungo obbligatoria nelle scuole svedesi. Werner fece film utili, ed esplorando il linguaggio sperimentò nuove modalità di narrazione. La sua produzione è caratterizzata da una ricca varietà di toni: la macabra durezza di Midvinterblot (1946); il rigore formale e la disperazione espressiva di Väntande vatten (1965); il calore incantato di Skymningsljus (1955); il pacato spaesamento di Ett glas vin (1960); le nitide armonie moderniste di Levande färg (1961). Alcuni suoi film possiedono una dichiarata urgenza politica ancora fin troppo attuale, come nel resoconto della condizione dei rifugiati in De kommer över gränserna (1961). Spesso Werner è più interessato a ciò che potremmo definire ‘politica degli echi’: perché altrimenti fare un film sui riti nordici del sacrificio e del sangue e dargli la forma di una composizione di luce abbagliante e spaventosi campi di pura tenebra come in Midvinterblot? Chi si salverà, qui? Guardando i film di Gösta Werner scopriamo un cineasta con una filosofia di vita molto coerente. Ciò che possiamo guadagnare invecchiando è poco se paragonato all’enormità della perdita che definisce l’esistenza umana, ma lo splendore di ciò che si intravede merita di essere celebrato con ogni possibile mezzo artistico. Come si conviene, il cinema di Werner è pieno di luoghi ormai perduti – la Stoccolma che si vede in Gatan o in Morgonväkt (1945) è stata rasa al suolo molto tempo fa – che però non sono mai apparsi così belli.

Olaf Möller e Jon Wengström

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