Georges Franju: documentario oltre il reale

Programma a cura di Bernard Eisenschitz

 

Georges Franju (1912-1987) ha vissuto due esperienze formative prima di realizzare nel 1948 il suo primo cortometraggio. Ha fondato la Cinémathèque française con Henri Langlois ed è poi stato segretario della FIAF (Federazione internazionale degli archivi filmici). Dall’amore per l’arte del muto e per il cinema degli anni Trenta ha ereditato il senso della scrittura cinematografica, della volontà di stile. Quella memoria è presente in ogni suo film: la scuola tedesca si incrocia con quella di Feuillade.
Ha inoltre lavorato dodici anni con il cineasta Jean Painlevé, alla Cinémathèque scientifique française e successivamente all’Institut cinématographique scientifique. Esperienza che ha alimentato in lui una riflessione molto consapevole sul cinema e la paura (ne parla a più riprese davanti alla macchina da presa di André S. Labarthe). “A essere strano è ciò che è familiare” dice, “e che appare d’un tratto sotto una luce nuova”.
È alla fine della guerra che Franju inizia a girare film. Tre anni dopo la scoperta nei cinegiornali dell’apertura dei campi di concentramento, Le Sang des bêtes infrange il tabù della rappresentazione della morte in diretta.
Nella stagnazione della produzione cinematografica francese, cineasti di diverse generazioni si dedicano alla forma breve, da Jean Grémillon (nato nel 1901) ad Agnès Varda (1929), Alain Resnais, Chris Marker, Pierre Kast, Roger Leenhardt e molti altri ingiustamente dimenticati. Quando Franju realizza il suo primo lungometraggio, a quarantasei anni, ha già alle spalle un’opera cospicua: tredici cortometraggi in undici anni, per cui qualcuno già lo qualifica “il più grande cineasta francese”.
Sono quasi tutti lavori su commissione. Franju prende l’incarico alla lettera, non lo aggira: sta al gioco fino in fondo. “Lavorare con Painlevé mi ha intriso di una certa visione del reale, del reale documentario”, dice a Serge Daney. È così che prende il polso del suo tempo, un tempo tra due guerre, dalla liberazione alla morte atomica annunciata. I suoi film raccontano la banalità dell’assassinio di massa (Le Sang des bêtes), l’altra faccia della guerra (Hôtel des Invalides), la scienza e la morte (Monsieur et Madame Curie), la distruzione del passato (En passant par la Lorraine) e quella, incombente, del pianeta (Les Poussières), ma anche l’illusione, la tragedia, il sogno (Le Grand Méliès, Théâtre National Populaire, La Première Nuit). Nell’esplorazione del presente il suo sguardo scopre l’angoscia, l’orrore e il meraviglioso. “Sono realista e dunque surrealista”.

Bernard Eisenschitz

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