Emilio Ghione, l’ultimo Apache

Dagli anni della prima guerra mondiale Emilio Ghione è identificato con il suo personaggio più famoso Za la Mort. Nelle vesti dell’apache parigino (teppista, abitante dei bassifondi) l’attore ha interpretato ben sedici tra film e serials in dieci anni. Ma la filmografia da attore conta una produzione ben più vasta di interpretazioni dagli esordi all’Itala-Film, alla Cines, in cui Guazzoni lo dirige ne Il poverello di Assisi, alla Celio- Film al fianco di Francesca Bertini, in cui inizia anche la carriera di direttore di scena, e alla Caesar. Segue il lungo periodo alla Tiber di Roma fino al 1919, quando torna all’Itala. Negli anni Venti condivide le sorti del sistema cinematografico italiano, cambia in continuazione case di produzione, ne fonda una propria (Ghione-Film), emigra in Germania. Tornato in patria dirige e interpreta alcuni film tra i quali si ricordano soprattutto La cavalcata ardente e Gli ultimi giorni di Pompei. Il cinema che Ghione concepisce, scrive e dirige è principalmente cinema d’evasione, tratta spesso temi popolari e populisti, perfino razzisti. Permane il personaggio che emerge tra il popolo, sgomina gli apaches parigini ma sa essere anche più aristocratico degli aristocratici. La produzione sul finire della Grande Guerra si incentra sui serials di Za, ambientati in un altrove che può essere la Francia, l’America o l’isola selvaggia del Pacifico. Queste ultime sono le locations del serial I Topi Grigi suddiviso in otto episodi. La trama avventurosa subisce numerosi cambi repentini: dalle ambientazioni bucoliche si passa ai palazzi aristocratici, dalle sordide fogne, in cui vivono gli apaches Topi Grigi, a una sontuosa festa in maschera. Una eredità cospicua è al centro dell’attenzione di Za e della coraggiosa Za la Vie (Kally Sambucini), compagna di vita e di battaglia. Sull’eredità vogliono mettere le mani Grigione e il suo compare Muso Duro, una duchessa malvagia e assassina e il suo intendente. Ma chi è il legittimo erede? Leo, un povero ragazzo indifeso, che da bambino fu rapito proprio dai temibili Topi Grigi.

La famosa “maschera” di Ghione comprende anche il corpo intero, sottile e agile. I grandi occhi vividi ne definiscono i confini discorsivi, Ghione comunica a piccoli scatti, digrigna il volto dalla pelle tesa, chiude a pugno una mano senza guardarla. La posa statica ha grande risalto, tanto quanto le smorfie, gli ondeggiamenti lenti e regolari, prima del balzo felino che sbaraglierà il nemico. La berretta nera con visiera sulle ventitré, l’occhio che si abbassa mostrando la palpebra brunita dal trucco, le labbra sottili che si inarcano a tracciare un sorriso sarcastico, il braccio sospeso a mezz’aria che cade mollemente su se stesso o artiglia la gola dell’avversario. La concezione di base dei film di Za la Mort è in fondo assai moderna: fa emergere l’ignoto, il misterioso, l’esotismo e una realtà collaterale spaventosa, ricettacolo di assassinii e furti con scasso. Lo schermo diviene il catalizzatore di sogni (o incubi). Nella citazione che segue vi è l’intenzione che ha mosso la creazione di Za la Mort e contemporaneamente un’idea di cinema che Ghione annota nell’autobiografia Memorie e Confessioni (1928): “L’arte cinematografica, influendo, sopra ogni cosa, sulle masse, deve essere sagomata di buon senso, deve penetrare con facilità; non può essere astrusa, cervellotica. L’opera sana di questa settima manifestazione artistica non deve basarsi che sulla possibilità d’essere subito compresa, quindi amata. Le eccezioni come Sigfrido creato per l’intelletto, mi confermano la regola di Za la Mort creato per le platee”.

Denis Lotti