CONRAD VEIDT DA CALIGARI A CASABLANCA
Conrad Veidt (1893-1943), più di qualsiasi altra celebrità del suo tempo, rappresentava un autentico monito della storia: come se un volto potesse riflettere il dolore (il vero dolore che si fonde nella sua rappresentazione, a ricordare come la filmografia dell’attore si sia dispiegata tra una guerra mondiale e un’altra), le aspettative deluse e le riflessioni su un’epoca. Per noi, l’occasione di presentare questo grande uomo del mistero è un momento d’orgoglio, anche se siamo costretti a offrire solo una pars pro toto piuttosto patetica. Veidt è l’anello mancante nelle retrospettive avviate a Bologna negli anni Novanta e dedicate a Valentino, Garbo e Fairbanks. In seguito Pordenone ha dedicato una splendida retrospettiva a Mozhukin. L’elenco dei più grandi tra i grandi non è poi così lungo.
Gli spettatori conobbero Veidt tra le scenografie dipinte di Caligari e gli dissero addio in una Casablanca di finzione. Tra queste regioni mentali c’erano bagliori impareggiabili che alludevano a identità e a personalità divise, sempre tangibili anche quando apparivano sullo schermo per pochi secondi. Non si ripeteva mai, ma non era camaleontico. Sempre riconoscibile e attraente, schivo o crudele o entrambe le cose, con il suo pallido volto ascetico, le labbra sottili, gli occhi sepolti nella fonte ampia e profonda, ad accennare l’orrore di un’origine irriconoscibile, era davvero l’incarnazione esemplare di chi aveva vissuto la Prima guerra mondiale ed era consapevole della sua follia. Aveva percorso la strada dell’immaginazione e vissuto la propria presenza con un’intensità capace di far sì che la realtà sembrasse un’imitazione di seconda mano. (E che parata di stelle vedremo al suo fianco: Asta Nielsen, Erna Morena, Olaf Fønss, Albert Basserman, Paul Wegener, Heinrich George, Lil Dagover, Lillian Harvey, Willy Fritsch, Madeleine Carroll, Sabu…)
“… quando il Cesare di Conrad Veidt si muoveva furtivamente lungo il muro era come se il muro l’avesse trasudato”, scrisse Siegfried Kracauer. Il viaggio trasognato e quasi immateriale di Veidt nelle epoche e nei personaggi storici (Riccardo III, Cesare Borgia, Ivan il Terribile, Chopin… ) divenne leggendario, come i suoi gelidi ritratti della vita moderna nell’epoca degli affari. Diede ugualmente prova di originalità nelle composizioni classiche, in quelle d’avanguardia e perfino nei generi più convenzionali – fu un principe memorabile in Der Kongress tanzt e in The Thief of Bagdad.
Il suo stile era sempre ambivalente, non esente da certe sfumature romantiche neanche quando i messaggi venivano dai confini estremi e labili della psiche. Che lavorasse nel suo Paese, la Germania, oppure a Hollywood (negli anni Venti e poi verso la fine della sua vita) o in Inghilterra (quando scelse di lasciare la Germania), rimase un vero auteur. Diede un’intensità fremente ai morbosi film “Aufklärung” di Richard Oswald, introducendovi una nuova presenza marginale e abbracciando tematiche (la droga, l’omosessualità, la prostituzione) che comportarono uno scontro diretto con la censura. E poi naturalmente raggiunse un’intensità particolarmente terrificante lavorando con i più grandi: Murnau, Leni, Powell. Nella sua genialità Veidt sapeva aderire completamente al nucleo tematico di un film. Il suo sguardo d’acciaio non è in perfetta sintonia con la fantasia che anima gli occhi del ladro di Bagdad?
Forse ci troviamo di fronte alla storia più vera del periodo tra le due guerre? Anche a qualcosa di più. Come il suo Cesare sonnambulo, Veidt era una strana persona che “conosceva il passato e vedeva il futuro”.
(Peter von Bagh)
Sezione a cura di Gian Luca Farinelli e Peter von Bagh