SPELLBOUND
Sog.: dal racconto The House of Dr. Edwardes (1927) di Francis Beeding. Scen.: Ben Hecht. F.: George Barnes. M.: William Ziegler, Hal C. Kern. Scgf.: James Basevi. Mus.: Miklós Rózsa. Int.: Ingrid Bergman (dottoressa Costanza Petersen), Gregory Peck (John Ballantyne/dottor Antonio Edwardes), Rhonda Fleming (Mary Carmichael), Michail Čechov (dottor Alessio Brulov), Leo G. Carroll (dottor Murchison), John Emery (dottor Fleurot), Steven Geray (dottor Graff), Norman Lloyd (Mr. Garmes). Prod.: David O. Selznick per United Artists. DCP. Bn.
Scheda Film
“Tutto ciò che è incantevole produce una specie di perpetuo scintillio”, scrive Emanuele Trevi nell’auto-fiction romanzesca che tre anni fa gli guadagnò il Premio Strega, e questo è esattamente quel che accade a Ingrid Bergman in Spellbound, fin dalla scena in cui la dottoressa Petersen rientra affannata e siede al tavolo dove l’attendono per la cena i colleghi, sette nani non tutti benevoli, stretti intorno a una Biancaneve che ha appena avuto il suo bacio. Qualcosa le scintillerà sempre intorno, filtrando tra i capelli appena scarmigliati, accendendosi nelle guance che immaginiamo arrossate; questa natura incantevole, questo incantamento è la legge d’attrazione che dà al film il suo equilibrio. Fu accolto male Spellbound, e dal “surprisingly disappointing” di James Agee si arrivò al “disaster” di Pauline Kael; poi in questi ultimi decenni, nel clima di universale adorazione riservata a Hitchcock, i pochi che ne hanno parlato lo hanno fatto con più rispetto e clemenza. Tuttavia il film rimane una sinuosa danza di stereotipi, lo psichiatra ammattito, lo smemorato ingiustamente accusato, la dottoressa che si toglie gli occhiali e diventa “toute femme”, come scrissero Rohmer e Chabrol, scivolando fino al paterno Freud del New England.
Ma tra un passo e l’altro d’una psicanalisi illustrata come una favola, quali squarci formidabili sa aprirsi questa cinepresa: il povero Gregory Peck, che per antico trauma odia il bianco e le righe, s’inoltra nel candore d’un bagno piastrellato, e in un attimo comprendiamo “l’illimitato, criptico terrore che può emanare dagli oggetti” (ancora Agee); poi, il ritorno del rimosso, in due sole inquadrature silenziate, è il più conciso e agghiacciante che potremo mai ricordare. La resa dei conti, col suo finale fiotto di rosso, è scritta sul filo tra pathos e sudore freddo, e sia onore a Ben Hecht. E Salvador Dalí? Dalí venne chiamato a bordo da Selznick, e Selznick è uno dei motivi per cui gli storici hanno trattato il film con distacco, opinando che la mano del produttore si facesse sentire troppo (Hitchcock non ha mai suffragato l’opinione). La lunga scena del sogno rivelatore è un’arruffata stravaganza, ma la singola languida fuga delle porte che si aprono una dopo l’altra ancora ci turba (molto di più, su uno schermo molto più grande) per la sua simbolica, erotica eleganza.
Paola Cristalli
Per concessione di Park Circus. Restaurato in 4K nel 2023 da Walt Disney Studios in collaborazione con The Academy Film Archive, MoMA The Museum of Modern Art e The Film Foundation presso i laboratori Cineric, Inc. e Audio Mechanics, a partire da un positivo 35mm e da un controtipo composito acetato 35mm. Un ringraziamento speciale a Martin Scorsese e Steven Spielberg