SOMETHING TO LIVE FOR
Scen.: Dwight Taylor. F.: George Barnes. M: William Hornbeck, Tom McAdoo. Scgf.: Hal Pereira, Walter Tyler. Mus.: Victor Young. Int.: Joan Fontaine (Jenny Carey), Ray Milland (Alan Miller), Teresa Wright (Edna Miller), Richard Derr (Tony Collins), Douglas Dick (Baker), Herbert Heyes (Crawley), Harry Bellaver (Billy), Paul Valentine (Albert), Frank Orth (cameriere), Alex Akimoff (cameriere). Prod.: George Stevens per Paramount Pictures. DCP.
Scheda Film
Fino a I Remember Mama Stevens filmò la vita delle persone. Da quel momento in poi cominciò a volere di più, a voler entrare dentro i suoi personaggi. Questa profonda empatia culminò nel film più sottovalutato della sua carriera, un tesoro nascosto: Something to Live For. Prendete il Ray Milland alcolizzato di Giorni perduti e immaginatelo sobrio, maturo, sposato, padre di due bambini e affermato pubblicitario. Eppure gli manca qualcosa, la sua vita ormai somiglia a una pubblicità. Avendo deciso di spendersi per una buona causa nel tempo libero, un giorno riceve una richiesta di soccorso degli Alcolisti Anonimi e quando si precipita ad aiutare la persona in difficoltà scopre che è una donna: Joan Fontaine nei panni di un’attrice sul viale del tramonto. La salva, si innamorano, lei riporta la vitalità nell’esistenza di lui, che a detta della moglie (interpretata da Teresa Wright) è diventata sin troppo sobria. In seguito le loro vite migliorano, ma come in tanti film di Stevens il dolore e il senso di perdita restano. Dwight Taylor, autore della delicata sceneggiatura originariamente intitolata Mr and Miss Anonymous, si era ispirato a sua madre, attrice e alcolista. Stevens entrò nel progetto quando era ancora impegnato nel montaggio di A Place in the Sun. Le riprese iniziarono nel maggio 1950, ma l’insuccesso di una preview nell’agosto del 1951, in concomitanza con la distribuzione in sala di A Place in the Sun, fece slittare al marzo del 1952 l’uscita del film, che non si salvò comunque dal fiasco commerciale e fu così condannato all’oblio. In seguito anche i critici e perfino gli autori di monografie su Stevens (come Donald Richie e Marilyn Ann Moss) si sono sentiti legittimati a ignorare e sottovalutare il film. Eppure la regia, con il suo raffinato senso del disordine spaziale, dell’ingarbugliamento e dell’ineluttabilità, è assolutamente magistrale. I personaggi, vulnerabili, sono intrappolati in bar, camere d’albergo, uffici, ascensori, e, in una sequenza degna di Bergman e Rossellini, in una camera funeraria egizia dentro un museo, luogo improbabile per la riaffermazione dei legami umani. Cercano un amore che è perduto ancor prima di essere trovato. Il sogno romantico fallisce, ma lo spettacolo teatrale che chiude il film è solo all’inizio. È un trionfo dell’artificio e del conformismo? Il film cupo e tenero di Stevens ti lascia con questo dubbio come mai nessun altro ha fatto.
Ehsan Khoshbakht
Leggi la recensione su Cinefilia Ritrovata