INTOLERANCE

David W. Griffith

Scen.: David W. Griffith, Anita Loos (didascalie). F.: George William ‘Billy’ Bitzer, Karl Brown. M.: David Wark Griffith, James Smith, Rose Smith. Scgf.: Walter L. Hall, Frank ‘Huck’ Wortman. Mus.: Joseph Carl Breil, David Wark Griffith. Int.: Lillian Gish (donna della culla), Mae Marsh (piccola cara), Robert Harron (il ragazzo), Bessie Love (la sposa di Cana), Constance Talmadge (Margherita di Valois/la ragazza di Montagna), Sam De Grasse (Arthur Jenkins), Howard Gaye (il Nazareno), Lillian Langdon (Maria, la madre), Margery Wilson (Occhi Castani), Eugene Pallette (Prosper Latour), Vera Lewis (Mary T. Jenkins), Olga Grey (Maria Maddalena). Prod.: David Wark Griffith per Wark Producing Corporation. 35mm. L.: 3849 m. D.: 198’ a 17 f/s. Bn e imbibito.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Se vogliamo orientarci in un’azione drammatica narrativamente complessa come quella di Intolerance e cogliere le frequenti analogie, i rimandi espliciti e impliciti, gli ovvi parallelismi e le brusche giustapposizioni che emergono all’interno delle varie ‘storie’ e tra una storia e l’altra, può tornarci utile la descrizione metaforica del melodramma offerta da Charles Dickens (e cos’è Intolerance se non un intreccio e un amalgama di quattro distinti melodrammi?). Scrive Dickens che “È consuetudine del teatro, in tutti i buoni melodrammi con tanto di assassini, presentare scene tragiche e comiche in regolare alternanza, come gli strati bianchi e rossi in un pezzo di pancetta magra ben stagionata”. Naturalmente in Intolerance c’è più che un’alternanza tra serio e comico, anche se la commedia occasionale e la tragedia sfiorata si susseguono spesso rapidamente. La narrazione a singhiozzo di Griffith è intenzionalmente disgregatrice: spesso si interrompe per introdurre un nuovo ambiente e nuovi personaggi invariabilmente oppressi oppure, compiendo un viaggio nel tempo, riprende il filo di un’altra catastrofe che si sta producendo in un paesaggio già familiare. Si vede così fino a che punto sia calzante la metafora di Dickens.
Intolerance è un dramma moralistico didattico. Mentre ci godiamo lo spettacolo, i dilemmi e i personaggi, ci sentiamo incessantemente fare la predica (e veniamo rimproverati per le reazioni arroganti e bacchettone a Nascita di una nazione). È uno di quei film cui probabilmente volteremmo le spalle se non fosse per la qualità artistica e la drammatica intensità di alcune storie. E Griffith ebbe una buona intuizione artistica e commerciale quando nel 1919 separò l’‘episodio babilonese’ dal resto, girò altro materiale, si inventò un finale in cui i protagonisti si salvavano e fece uscire il film con il titolo The Fall of Babylon.
Come il cinema prima del 1928, anche la danza è un linguaggio muto accompagnato dalla musica, e le due forme d’arte ebbero a volte la tentazione di imitarsi reciprocamente. In Babylon non c’è traccia di questa imitazione, ma entrambi i mezzi espressivi si incaricano di narrare la storia. L’episodio babilonese di Intolerance è il momento in cui le due nuove forme d’arte del Ventesimo secolo si incontrano pur restando distinte e fedeli a se stesse e alla propria natura. Le traiettorie delle danzatrici e degli attori si intersecano solo occasionalmente nella scena della grande danza alla corte di Belshazzar dell’episodio babilonese, accompagnate – come raccontò Lillian Gish – da ben tre orchestre sistemate strategicamente nel vasto spazio.
Ciò che Ruth St. Denis e le sue danzatrici donano a The Fall of Babylon, storia di una cultura ricca ed edonistica travolta dall’invasione di un’orda semibarbarica, è il valore dei sentimenti privati, domestici e personali, che giungono a sfidare la retorica griffithiana dell’autenticità storica. Al centro dello spettacolo risplendono emozioni – paura, esultanza, frenesia religiosa ed estasi erotica, disperazione e dolore – che per intensità e proporzioni appaiono commisurate alla sontuosa monumentalità di Babilonia.

David Mayer

 

La recensione su Cinefilia Ritrovata

Copia proveniente da

Ricostruzione del 1989