ANNA

Alberto Lattuada

Scen.: Giuseppe Berto, Franco Brusati, Dino Risi, Ivo Perilli, Rodolfo Sonego; F.: Otello Martelli; Mo.: Gabriele Varriale; Scgf.: Piero Filippone; Mu.: Nino Rota; Int.: Silvana Man- gano (Anna), Gaby Morlay (la madre superiora), Raf Vallone (Andrea), Jacques Dumesnil (professor Ferri), Patrizia Mangano (Luisa), Natascia Mangano (Lucia), Piero Lulli (dottor Manzi), Vittorio Gassman (Vittorio), Sofia Loren (assistente di Vittorio al night-club), Tina Lattanzi, Lamberto Maggiorani; Prod.: Carlo Ponti, Dino De Laurentiis per Lux Film 35 mm. D.: 105′. Col.

 

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

L’ambiente in cui si svolge gran parte del nuovo film di Alberto Lattuada, Anna, un ospedale modernissimo, e precisamente il nuovo Ospedale Maggiore di Milano, sembrerebbe l’ambiente d’un documentario realizzato con estrema abilità. È un materiale che, anche considerato a sé, ha un ritmo, un interesse, costituisce un racconto. L’ambiente estremamente moderno, i materiali nuovi di cui è fatto, la cura estrema dell’igiene, attenuano alquanto la tragedia quotidiana che ha qui la sua scena. L’apparato della scienza ne attenua quasi il dolore. La indifferenza della fotografia permette di guardare lo schizzo di sangue sul camice del chirurgo mentre opera, e il viso nell’estremo pallore di una moribonda. Si sta attenti a come il chirurgo calza i guanti, per stabilire se si tratta di un vero medico o di un attore. È la crudele perfezione e indifferenza della macchina moderna. La città manda qui a ogni suo palpito gli uomini che consuma e che rompe. C’è un ritmo e c’è un ciclo. Non si può dire che il regista non abbia approfittato di questa visione che avrebbe esaltato un Balzac, con la sua gelida sinfonia di bianchi, lacche, vernici, biancheria. Per poco un documentario simile non diventa allucinante. Diventerebbe sufficiente e perfetto per suo conto se il regista lo avesse avuto come tema unico.

(…) Comunque al confronto d’una tale tecnica d’un complesso moderno, forse la vicenda umana avrebbe dovuto essere estremamente semplice, toccante, senza ombra di convenzionalità. È invece un episodio convenzionale, osservato convenzionalmente.

Corrado Alvaro, Ospedale e amore, “Il Mondo”, 23 febbraio 1952

 

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