Sguardi sull’infanzia: ‘Il monello’ e ‘Ladri di biciclette’
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Nel cinema del dopoguerra l’infanzia assume un ruolo fondamentale. Quella dipinta dal Neorealismo è un’infanzia violata, segnata dagli orrori della guerra e dalle conseguenze sociali da questa derivate. In film come I bambini ci guardano, Sciuscià, Paisà, Germania anno zero e naturalmente, Ladri di biciclette, i giovanissimi protagonisti sono piccoli adulti alle prese con responsabilità e preoccupazioni che oggi appaiono distanti da quella che consideriamo l’età della spensieratezza, eppure, alla fine degli anni Quaranta, era condizione di tanti.
Il piccolo Bruno, interpretato da Enzo Staiola, co-protagonista di Ladri di biciclette, è entrato nell’immaginario collettivo con la forza di un simbolo, un ritratto di quell’infanzia.
A sei anni anni Bruno ha già un lavoro e porta i soldi a casa, ma fa anche di più: Bruno sostiene il suo papà, ne è complice e, alla fine, quando tutto sembra perduto, è lui a restituire dignità al genitore disperato, lo fa con un gesto semplice, passandogli il cappello ripulito dalla polvere e poi prendendogli la mano, con determinatezza, mentre le lacrime rigano il volto dell’adulto. Bruno è un sostegno per la sua famiglia ma anche l’incarnazione della speranza, dello sguardo al futuro. Il critico cinematografico André Bazin scrive, a proposito del finale di Ladri di biciclette:
“È il gesto più grave che possa segnare i rapporti fra un padre e un figlio: quello che li fa uguali. In questo essere pari emerge la fragilità di tutte e due le condizioni, ma a vincere, a mio parere, è la forza del più giovane. Forse, se l’essere figlio è ricevere un’eredità, quello che il finale di Ladri di biciclette consegna è l’umanità del padre al figlio, ma anche (ed è questo che sconvolge) il sostegno del figlio alla debolezza del padre”.
Il piccolo Bruno richiama alla memoria un altro, indimenticabile, bambino della storia del cinema, il “monello” adottato dal vagabondo Charlot in The Kid (1921) di Charlie Chaplin. De Sica, del resto, non ha mai nascosto il proprio debito verso quel capolavoro chapliniano in cui, per la prima volta in un lungometraggio, commedia e tragedia convivono insieme.
Il monello, come Bruno, è complice del proprio papà adottivo. In entrambi i film genitore e figlio si fanno l’uno lo specchio dell’altro nei gesti, nei modi di fare. C’è però una grande differenza tra i due film, come scrive Emiliano Morreale, storico e critico cinematografico:
“Eppure c’è una differenza di fondo tra la coppia di Chaplin e molte di quelle che verranno, a cominciare da quella di De Sica. E sta nella figura dell’adulto. Charlot è amorale, è lui stesso bambino, è picaro. Lui e Jackie Coogan non hanno, come Maggiorani e Stajola, la responsabilità di un paese da far risorgere. E Chaplin, che per il décor del Monello (e non solo per quello) si ispira alla propria infanzia londinese, non è solo Charlot ma anche il monello”.
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