24/06/2018

Gli incubi ricorrenti dallo spazio profondo: ‘Alien’

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Si apre con il fascino del brivido e con le stimmate del cult movie la prima serata del Cinema Ritrovato 2018, nell’ambito della sezione “Ritrovati e Restaurati“: malgrado la contemporaneità con Scorsese e la proiezione di Enamorada in Piazza Maggiore, gli appassionati di fantascienza e horror sono accorsi a (ri)vedere la pellicola che – non a torto – è considerata come uno degli incroci meglio riusciti tra i due generi. Che Alien, lo storico secondo film di Ridley Scott (uscito nel 1979, due anni dopo I duellanti e tre prima di Blade Runner), mantenga ancora un suo fascino inquietante e nient’affatto agée è indubitabile: basterebbero gli scatti nervosi e le espressioni del pubblico in sala per certificare come le atmosfere claustrofobiche e le apparizioni mortifere dello xenomorfo siano ancora in grado di veicolare un profondo disagio negli occhi di chi spia lo schermo.Capostipite di una numerosissima famiglia, fatta di sequel più o meno ufficiali, cross-over (Alien vs Predator), prequel (i prodotti più recenti, Prometheus e Alien: Covenant), romanzi, parodie e videogiochi (segnaliamo l’incalzante e spaventoso Alien: Isolation del 2014), il film del 1979 rimane un oggetto multiforme, colmo di incubi, tematiche e riferimenti. Soprattutto, ha avuto il merito di creare un universo mostruosamente accattivante e (all’epoca) innovativo, per merito della tetra immaginazione di H.R. Giger: dalle tavole del suo Necronomicon, che sarebbero dovute affluire nell’incompiuto Dune di Alejandro Jodorowski, fuoriesce l’estetica biomeccanica, sensuale e mortale dell’alieno. Inutile parlare poi della fortuna che trascinerà certe figure (come i viscosi e infidi facehuggers) o alcune scene (il parto alieno di John Hurt) nella memoria collettiva di tutti i cinefili e degli appassionati del macabro.

Eppure, scorrendo la prima ora della pellicola, il tratto fantascientifico non sembra poi così distante dalla nostra realtà. Giacché il tempo dell’attesa per Scott non è fine a sé stesso, ma serve a delineare con precisione l’ambientazione fisica e psicologica del suo mondo, assistiamo alla quotidianità di un equipaggio annoiato e seccato dalla ripetitività nello scorrere del tempo, più preoccupato per le beghe contrattuali con il Leviatano capitalista della Compagnia che per il proprio viaggio nello spazio profondo. È questo il primo stadio del film, aperto dal primo parto, asettico e sterile (l’uscita dell’equipaggio dall’ipersonno): i lenti movimenti di camera ci lasciano esplorare l’astronave Nostromo, il cui horror vacui si mostra in un ammasso vorticoso di tasti e luci, con frequenti esalazioni di vapore che rendono lo spazio ancora più claustrofobico. L’attesa snervante viene rotta dallo scenario mefitico del pianeta Acheron, ulteriore prodotto della fantasia di Giger, dove il seme dell’incubo si installa nel corpo di Hurt, per dar vita poi ad un secondo parto, orrido e straziante. È il punto di non ritorno: l’apparizione dell’alieno, personificazione degli incubi atavici che terrorizzano l’uomo.

Dietro la doppia dentatura del predatore alfa, si nasconde una pluralità di significati, dal momento in cui l’idea dello script presenta evidenti debiti con la filmografia e la letteratura fantascientifica precedente (citiamo, per brevità, La cosa da un altro mondo di Nyby/Hawks e Il pianeta proibito di Wilcox). Si scorge il tema dell’altro (etimo della parola “alieno”), come oggetto inconoscibile e allo stesso tempo minaccia costante all’identità: di fronte ad un mostro perfetto e straniante, davanti alla materializzazione dell’incubo nel mondo reale, la reazione dello spettatore imita quella di Lambert, paralizzata ed impossibilitata ad accettare la nuova realtà, dove l’uomo stesso è diventato preda dell’immaginazione. Lo xenomorfo diviene quindi la forma corporea di una paura insondabile e ancestrale, soprattutto indomabile (malgrado i generosi sforzi reiterati da Ellen Ripley in quattro film): rappresenta un trauma ineludibile, dal quale la stessa protagonista ne uscirà disumanizzata, costretta ad adattarsi al gioco della bestia.

In questo denso calderone, i due autori (O’ Bannon e Shusett) creano un meccanismo narrativo à la Dieci piccoli indiani, ambientato in un dedalo di corridoi e cunicoli, dove la macchina a mano accompagna i disperati tentativi dei sopravvissuti. Non solo: tramite la figura di Ash, viene inserita la figura dell’androide, fedele alla Compagnia e affascinato dalla malvagia perfezione dello xenomorfo. La tematica verrà ulteriormente approfondita nei film successivi, con il personaggio di Bishop e, a distanza di trent’anni, Scott ha approfondito il tema robotico, con la figura di David 8 (Michael Fassbender), vero protagonista dei due prequel. Ma, malgrado il numero abbondante di fratelli minori, rimane la consapevolezza che difficilmente la potenza espressiva dell’opera prima del 1979 potrà essere replicata. L’incrocio tra la tetra immaginazione di O’ Bannon e Shusett, l’estetica di Giger e Rambaldi (vincitori dell’Oscar per gli effetti speciali) e la maestria di Scott ha dato vita ad un gioiellino fanta-horror, il cui fascino – dopo quarant’anni – è rimasto inalterato.

Ma la notte del brivido non si limita all’universo degli xenomorfi: gli instancabili fans dei monster movies hanno potuto reimmergersi nei propri incubi, assistendo alla proiezione di mezzanotte de La vendetta del mostro, sequel del fortunato Il mostro della laguna nera. Perché i mostri, così come le nostre paure più ataviche, popoleranno i nostri sogni ancora a lungo.

Yannick Aiani