Guida al Cinema Ritrovato 2021
I migliori anni della nostra vita
Succede ogni anno da trentacinque anni. Finisce Il Cinema Ritrovato, guardiamo increduli i dati della manifestazione, sfogliamo i ricordi delle giornate, l’emozione condivisa con il nostro pubblico, le parole di sostegno di sconosciuti e amici e pensiamo: “sarà impossibile fare un’edizione migliore di quella che si è appena conclusa”. Impossibile. Discutiamo delle proposte che ci sono giunte, alle rassegne stabili se ne aggiungono altre, affiniamo la struttura del programma. Lavoriamo dodici mesi per fare Il Cinema Ritrovato e continuiamo a pensare: “sì, la prossima edizione non sarà male, ma sarà impossibile fare bene come l’anno passato”. Arrivano le conferme su restauri lungamente attesi, tra i nuovi documentari spuntano film che ci sorprendono. Il programma esce dalla lunga sfocatura. Inizia a comporsi il catalogo, la ricerca delle foto perfette, il grande gioco delle correzioni e poi, dopo un lavoro infinito che ha coinvolto in maniera sempre più sincopata una ventina di persone, arriva il momento magico dell’anno, quello in cui, per la prima volta, possiamo vedere l’intero catalogo, con tutte le foto e… ci lascia stupiti… è stupendo…, siamo increduli di essere riusciti a riunire tanta bellezza. Prendetevi il tempo per guardare le quasi quattrocento pagine del catalogo di quest’anno, i sorprendenti contributi dei vari curatori, ogni singola scheda, le foto che sono delle finestre sui film, pertugi per immaginare intere epoche, idee, invenzioni, emozioni. Se così tanti film interessanti, belli, bellissimi sono stati prodotti nel passato, non possiamo non essere fiduciosi sul futuro.
Ci pare che il festival rifletta il progresso che la storia del cinema sta vivendo. Mai è stata così ricca e viva come ora, perché mai come ora gli archivi sono stati attivi e capaci di trasformare titoli sconosciuti in immagini, in film disponibili. Questo patrimonio ricchissimo ci consente di conoscere il passato come fosse il nostro presente. E Il Cinema Ritrovato è il luogo dove quest’alchimia magica si compie, dove il cinema del passato entra nel presente, grazie alle tre anime del festival, il restauro, la ricerca, la relazione tra passato e presente: il restauro come motore di trasformazione, la ricerca come metodo di lavoro, come esigenza di approfondimento, e la relazione tra il cinema del passato e del presente che ha nella sezione Documenti e documentari la punta dell’iceberg, dove il passato è nutrimento del presente. È sempre stato così, i film hanno influenzato altri film, simili, ma diversi. Nel 1936 esce Tempi moderni, dove Chaplin inventa uno dei finali più belli di sempre. Renoir lo vede e lo cita facendolo suo nel suo film del 1936 Les Bas-fonds. Quando vedrete Nightmare Alley di Edmund Goulding, con Tyrone Power e Johan Blondell, avrete la strana impressione di essere nelle atmosfere care a Guillermo del Toro, che infatti è in postproduzionecon un film, interpretato da Bradley Cooper e Cate Blanchett, tratto dalla omonima novella di William Lindsay Gresham, all’origine del film del 1947. Eppure non abbiamo dubbi che il film di del Toro sarà un’altra cosa, sorprendentemente diversa.
Uno sguardo nuovo
La rassegna dedicata al 1921 racconta di un anno importante, punto d’incontro tra il già e il non ancora, i grandi autori europei (Lubitsch, Sjöstrom, Stiller) lavorano ancora in Europa, ma presto sceglieranno Hollywood. La Rivoluzione russa è alle porte, ma non sembra capace di contagiare l’Europa. I grandi cambiamenti nella società e nel cinema stanno per accadere. Guardiamo i film di cento anni fa e ci interroghiamo sul nostro futuro. La pandemia, dalla quale speriamo di stare uscendo, ci ha cambiati? Il cinema sarà capace di cogliere e restituirci il senso di questo cambiamento? Forse per trovare una risposta dobbiamo guardare ai film di George Stevens (maestro della Hollywood classica, con una filmografia impressionante nella quale convivono Stanlio e Ollio, Fred Astaire e Ginger Rogers, commedie brillanti, melodrammi, musical e western) e di William Wyler, di cui mostriamo I migliori anni della nostra vita (1946). È un film che narra dei vincitori, i soldati americani che tornano dalla guerra. Citiamo Wyler: “Abbiamo tutti e tre [Capra, Stevens e Wyler] partecipato alla guerra. Essa ha esercitato su ciascuno di noi un’influenza profonda. Senza questa esperienza non avrei potuto fare il mio film come l’ho fatto. Abbiamo imparato a capire meglio il mondo”. Quattro anni dopo Rossellini realizza Francesco giullare di Dio, un’opera spartiacque, che conclude l’esperienza neorealista, ma apre una nuova stagione, il manifesto del cinema d’autore che verrà. L’episodio centrale del film vede protagonista Aldo Fabrizi, unica star del cast, in larghissima parte composto da non attori.
Fabrizi, cui dedichiamo una sezione nella quale esploriamo la sua attività di attore, ma anche di regista, era in quel momento all’apice della sua arte e del suo successo, capace di passare con uguale intensità e padronanza dal dramma alla commedia. Era l’attore italiano di maggior successo, una certezza per il botteghino. Cosa fa Rossellini? Per fargli interpretare il ruolo del sanguinario tiranno di Viterbo Nicolaio, lo chiude in una corazza e in un elmo che lo imprigionano completamente, tanto da renderlo irriconoscibile; solo dodici minuti dopo l’inizio dell’episodio, riusciamo a riconoscere il suo volto, ancorché trasfigurato dal trucco. Per Fabrizi, che pare come sopraffatto dalla follia buona di Rossellini/Francesco, è una sfida riuscita, per i produttori (Amato e Rizzoli, gli stessi che avranno il coraggio di produrre La dolce vita) un fragoroso insuccesso commerciale. Rossellini non concede nulla allo spettacolo, al fasto della ricostruzione storica, nel film ci sono solo Francesco e i suoi discepoli, la loro semplicità, il loro candore, la loro umiltà, il loro amore. Un film che è anche formalmente impastato con l’essenza stessa del pensiero francescano. Così come De man die zijn haar kort liet knippen, primo lungometraggio di fiction di André Delvaux, è un’opera che trova un nuovo modo, ipnotico, febbrile, di raccontare lo sfaldamento della coscienza del protagonista, del quale non solo sentiamo il soliloquio, ma condividiamo la progressiva sconnessione dalla realtà.
Cinema arte internazionale, perché arte di tutt*
Contro ogni bandiera, la rassegna dedicata a Wolfgang Staudte, consente di conoscere il percorso unico di un regista che si forma professionalmente negli anni del nazismo, sceglie di lavorare nella Germania Est e poi si trasferisce nella Germania Ovest dirigendo, però, sempre film personali e scomodi. Staudte rappresenta bene l’aspetto antinazionalista del cinema che è da subito, grazie all’immediata diffusione in tutto il mondo e alle immagini riprese nei vari continenti dagli operatori Lumière, un’arte collettiva, senza frontiere. Un’arte di tutti perché tutti se ne appropriano per rappresentarsi. Da molti anni il programma scava per far emergere una storia del cinema al femminile, che quest’anno attraversa tutte le sezioni, con conferme e moltissime scoperte di attrici, cineaste, sceneggiatrici e anche critiche donne. Nel documentario Lotte Eisner – Un lieu nul part, la protagonista dice: “Volevo fare l’archeologa, ma in Italia tutti gli archeologhi tedeschi erano terribilmente noiosi”. Anche per questo la giovane Eisner, ebrea berlinese, divenne la prima critica del cinema culturale, capace di sostenere con i suoi scritti acutissimi varie generazioni di cineasti, da Fritz Lang a Werner Herzog. Da anni eravamo affascinati da un volto del cinema delle origini, e finalmente, dedicandole un programma, possiamo far uscire dall’anonimato la deliziosa Renée Doux, moglie di Ferdinand Zecca e interprete, a Parigi, di cinquanta film tra il 1903 e il 1910. È evidente che la ricchezza e la modernità di molti capolavori sia dovuta all’apporto di sceneggiatrici che erano già consapevoli del futuro, come June Mathis (di cui mostriamo Camille), Clara Beranger (Miss Lulu Bett), Elinor Glyn (It) o, spostandoci nell’Italia del dopoguerra, Suso Cecchi d’Amico (Il lavoro, episodio di Boccaccio ’70).
Undici film d’esordio al femminile sono al centro della rassegna Cinemalibero, undici film unici, undici mondi che arrivano a noi a testimoniare la forza, il valore l’intensità dello sguardo delle cineaste. Basta scorrere i nomi delle registe per accorgersi dell’importanza di questa rassegna e di quanto è necessario che si continui a scavare per portare alla luce un altro sguardo.
Una delle scoperte di Ritrovati e Restaurati sarà Nattlek di Mai Zetterling, importante interprete del cinema svedese ed europeo, che qui passa dietro la mdp per dirigere Ingrid Thulin e realizzare un film che ha la profondità e la libertà dei Sessanta, un andare e venire della memoria che scaturisce dai luoghi, in equilibrio tra Proust e Fellini, un film così liberatorio che, alla Mostra di Venezia, lo poté vedere solo la giuria e, a San Francisco, Shirley Temple per non vederlo si ritirò dalla giuria.
Lo abbiamo sempre detto, il nostro è il festival degli archivi. Noi, con il nostro lavoro, possiamo spronare a restaurare delle opere, ma il programma è anche lo specchio delle scelte dei singoli archivi. La buona notizia è che sta emergendo il cinema afroamericano, lungamente dimenticato. Quest’anno possiamo rendere omaggio a due leggende del cinema nero, Oscar Micheaux e Melvin Van Peebles. Al primo è dedicato il prezioso documentario di Francesco Zippel, The Superhero of Black Filmaking e il restauro di Murder in Harlem, film di denuncia su un processo che agitò l’opinione pubblica statunitense degli anni Dieci per il delitto di una giovane impiegata bianca, del quale era stato ingiustamente accusato un collega afroamericano. Del secondo mostriamo il travolgente Watermelon Man, imperdibile commedia che ribalta gli stereotipi e le certezze dei bianchi, ma anche dei neri. E poi il restauro di Lumumba, la mort du prophète (1991). In soli sessantanove minuti Raoul Peck, che ha vissuto la sua infanzia in Congo, seguendo l’insegnamento di Chris Marker, riesce nell’impresa di narrare la storia epica e tragica di Patrice Lumumba, di denunciare le politiche coloniali bianche, di aprire una riflessione sulle grandi questioni etiche che riguardano le immagini, il giornalismo, l’impegno, la responsabilità; un capolavoro, onesto e potente. Nei dodici minuti di Buried News Bill Morrison utilizza quattro cinegiornali, prodotti tra il 1917 e il 1920, rocambolescamente ritrovati a Dawson City, dai quali emerge la violenza razziale che attraversa gli Stati Uniti, gli strascichi delle rivolte di East St. Louis, Illinois, nel 1917, e ad Omaha, Nebraska nel 1919 e materiale rarissimo, considerato perduto, sull’assedio del tribunale di Lexington, Kentucky, nel 1920. Purtroppo il razzismo ha infinite sfumature: la star hollywoodiana di origini giapponesi Sessue Hayakawa dovette lasciare Hollywood nel 1922 per lavorare in Europa, non potendo più interpretare ruoli da protagonista al fianco di attrici bianche con il dilagare negli Stati Uniti del razzismo anti-asiatico. Nella rassegna Cento anni fa mostreremo l’unica copia nota di The Swamp conservata dall’archivio russo Gosfil’mofond.
Working Together
È il titolo dell’ammirevole documentario che Michael Rogosin dedica a Woodcutters of the Deep South, realizzato nel 1973 dal padre. La tesi è che, anche in questo film, Lionel avesse intuito i grandi problemi della società, che restano tuttora irrisolti. Impossibile non dare ragione a Michael. La gran parte dei film che mostriamo sono la testimonianza della permanenza dei problemi, ma anche di come il cinema li abbia saputi raccontare. Woodcutters of the Deep South è dedicato ai tagliatori di legna in Alabama, di come, all’inizio degli anni Settanta, per la prima volta i lavoratori bianchi e quelli neri, si erano riuniti per lavorare assieme, per cercare di rendere più forte la loro voce. Working Together è anche lo slogan del cinema, un’arte che si può fare solo in collettivo. Dove spesso gli artisti hanno sentito il bisogno di mettersi assieme. Come racconta bene la sezione curata da Alex Jacoby e Johan Nordström dedicata ai documentari della casa di produzione giapponese Iwanami e ai suoi artisti che rivoluzionarono, in anticipo anche sul Free cinema inglese e il cinéma vérité francese, il documentario d’osservazione e lo sguardo sul Giappone. E anche la sezione dedicata al movimento Parallel Cinema, che riunì in India, tra il 1968 e il 1976, un gruppo straordinario di cineasti poeti e ribelli, che volevano sperimentare una piena libertà creativa. I loro film sono oggi invisibili, riuscire ad allestire una retrospettiva in piena pandemia era, evidentemente, un’impresa impossibile. Ma, lavorando assieme, l’impossibile è diventato possibile.
Senza la passione di Shivendra Singh Dungarpur, senza l’amicizia e l’incredibile forza della Film Foundation che porta quest’anno a Bologna otto nuovi restauri, senza la dedizione di Janice Simpson, che ci ha consentito di proporre una selezione straordinaria di film restaurati dagli studi hollywoodiani, senza la professionalità ispirata di Davide Pozzi ed Elena Tammaccaro e dell’Immagine Ritrovata (che non ha mai chiuso, nemmeno durante il lockdown più duro e porterà il numero record di 41 nuovi restauri), senza il sostegno costante di Sophie Seydoux e della Fondation Jérôme Seydoux-Pathé, senza l’amicizia di Nicholas Seydoux e della Gaumont, senza il lavoro prezioso di 89 istituzioni pubbliche e private di 27 paesi nel mondo, senza il lavoro dei dipendenti della Cineteca di Bologna e della Modernissimo srl, questo festival, con le sue 16 sezioni e i suoi 426 film, mai avrebbe potuto essere allestito. L’emergenza Covid ci obbliga, come lo scorso anno – in attesa del Modernissimo (l’edizione 2022 sarà ospitata, finalmente, nel nuovo, attesissimo cinema) –, ad aumentare il numero di sale. A Piazza Maggiore, al Jolly, all’Arlecchino, ai due Lumière, a Piazzetta Pasolini si aggiun- ge la LunettArena con i suoi settecento posti, ben distanziati, due bei cinema cittadini, l’Odeon e il Galliera, una sala storica, tempio della prosa, l’Arena del Sole, dotata di uno spettacolare boccascena che ospiterà uno schermo adeguato anche ai grandi formati. Questo festival lo firmiamo a otto mani, ma appartiene a tutti quelli che lo rendono possibile.
Eternità “al dente”
Tutte le sezioni del festival sono preziose, ma forse ce n’è una più preziosa delle altre, quella dedicata alle copie 35mm restaurate dal National Film Archive of Japan, che ce le ha concesse. Abbiamo scelto di mostrare a Bologna la parte meno nota della collezione, molti dei corti e dei frammenti che sono in programma non sono mai stati proiettati, nemmeno in Giappone. La storia di questa collezione sembra una favola. Tomijiro Komiya, figlio del proprietario di un ristorante nel popolare quartiere Asakusa di Tokyo, fu, fin da ragazzo, amante del cinema e frequentatore assiduo dei cinematografi. Tra il 1907 e il 1917 (quando aveva tra i dieci e i vent’anni), iniziò a raccogliere una collezione di film europei che attraversò incendi, terremoti, la Seconda guerra mondiale, furti, il peggiore clima immaginabile per i film su supporto nitrato. Eppure una parte di questa collezione preziosissima, ricca anche di titoli perduti in Europa, è sopravvissuta e giunge a Bologna in copie luccicanti.
A un altro collezionista, ma di manifesti, Maurizio Baroni, dedichiamo una mostra in Salaborsa. Baroni è stato uno dei maggiori collezionisti ed esperti di affissi cinematografici nel nostro paese; come Antoine Doinel nei 400 coups, che vedremo, grazie a MK2, in un nuovo atteso restauro, rubava le locandine dalle bacheche dei cinema. Suo padre gli bruciò i manifesti che aveva raccolto e da quel momento ebbe l’ossessione di ricostituire la collezione e di farla crescere, diventando uno studioso di fama internazionale. L’aspetto eccezionale di questi due collezionisti è la loro passione personale, che oggi produce cultura condivisa, che a sua volta, potenzialmente, produce nuova passione. Il festival di quest’anno sembra volerci dimostrare che i film sono molto forti e capaci di sopravvivere, anche fisicamente, a tutto. Sono le storie raccontate dai film di Bill Morrison, finiti in fondo al mare, decomposti, sotterrati, ma che, nonostante tutto, anche se in forma di frammenti, continuano a esistere e a emozionarci.
Scrive Volker Schlöndorff nell’introduzione alla sezione dedicata a Romy Schneider, “che un film di finzione è spesso anche undocumentario sugli attori. Nel caso di Romy comunque è innegabile: vita e finzione sono la stessa cosa”. Indimenticabile Romy, strappata alla vita a quarantatré anni, segnata dalla tragica morte del figlio quattordicenne. Attraverso la sua carriera d’attrice ha forgiato la sua bellezza e la sua emancipazione, scegliendo ruoli dove la sessualità era sempre presente. Un’attrice capace di recitare con lo sguardo e di recitare assieme agli altri. L’episodio di Boccaccio ’70 è un momento chiave della sua carriera, quello in cui riceve un riconoscimento artistico che vale la libertà professionale, firmato da uno dei registi più autorevoli della storia del cinema e del teatro, Luchino Visconti. Per questo abbiamo scelto come immagine guida del festival una Romy solare e padrona di sé, pienamente sostenuta da una messa in scena barocca ed elegantissima dove anche il gatto sembra vestito da Chanel.
Quest’anno non sarà con noi, in fuga tra una sala e l’altra per non perdere uno dei suoi film preferiti, Bertrand Tavernier. Certamente andrebbe a vedere i film di Mank, che non fu solo un eminente sceneggiatore di Hollywood e vinse con Welles l’Oscar per la sceneggiatura di Quarto potere, ma che tra le sue medaglie può annoverare di aver scritto nel 1933 una sceneggiatura, mai realizzata, intitolata The Mad Dog of Europe nella quale figurava un imbianchino chiamato Adolph Mitler; nel luglio del 1935 Goebbels avverti Hollywood che in Germania sarebbe stato immediatamente messo al bando qualsiasi film che portasse la firma di Mankiewicz.
Ma tutte queste sono storie note, Tavernier invece ci avrebbe saputo parlare per ore di Mank, raccontandoci quello che non sappiamo… Lo vogliamo ricordare per un episodio accaduto due anni fa. Era seduto tra il pubblico del cinema Lumière a vedere Muna Moto, del regista camerunense Dikongué Pipa, quasi ottantenne, alla sua prima celebrazione pubblica, mezzo secolo dopo la realizzazione del suo film. All’uscita accompagnammo Dikongué a mangiare e trovammo Bertrand nello stesso ristorante. Quando ci vide prendere posto si alzò, si diresse verso di noi e venne a presentarsi a Dikongué complimentandosi per il suo film che aveva trovato di una bellezza e di una poesia unici. Era chiaro che Dikongué ignorasse chi fosse, ma emozionato lo invitò ad accomodarsi con noi, cosa che Bertrand fece con piacere. Hanno conversato di cinema per quasi tre ore, Bertrand faceva una domanda dopo l’altra con una sensibilità, un’umiltà e una curiosità senza pari. Dikongué che aveva capito, dal tipo di osservazioni, che si trattava di un regista (“mon frère-cinéaste” lo chiamava) aveva iniziato, con altrettanto interesse, a fargli domande sui suoi film, che non conosceva. Era come assistere a un fenomeno naturale, a un’esplosione d’amore per il cinema allo stato grezzo, puro, spogliato di qualunque inutile orpello. Bertrand non è stato solo un grande cineasta, un narratore ineguagliabile del cinema, dei suoi eroi noti e ignoti, è stato un esempio, la dimostrazione quotidiana della forza positiva dell’amore per il cinema.
Gli dedichiamo il festival e la frase che Aldo Fabrizi ha voluto sulla sua tomba, verso finale di un sonetto da lui composto: “Tolto al mondo troppo al dente”. La rassegna Fabrizi sarebbe stata certamente seguita da Tavernier, che adorava l’Italia, gli italiani, la cucina e il cinema italiano. E avrebbe riso di Fabrizi che, scomparso a ottantacinque anni, si considerava ancora troppo “al dente”, così come sarebbe stato felice, lui lionese e Presidente dell’Institut Lumière, di sapere che nella sezione Super8 & 16mm – Piccolo grande passo ospiteremo un nuovo prodigioso proiettore, l’Archeoscopio del regista inventore praghese Jan Kulka, capace di proiettare merletti, cristalli di sale, pluriball…
Buon festival a tutti!
Cecilia Cenciarelli, Gian Luca Farinelli, Ehsan Khoshbakht, Mariann Lewinsky