BORIS BARNET: VISIONI POETICHE DEL QUOTIDIANO
Moscovita di nascita con origini anglosassoni (il nonno era un artigiano inglese trasferitosi in Russia a metà del XIX secolo), Barnet, classe 1902, cresce e si nutre in quel crocevia di arti e avvenimenti storici che è la capitale degli anni immediatamente precedenti e successivi alla Rivoluzione d’Ottobre. Curioso e istintivo, con una forte predisposizione verso la manualità, egli si spinge dall’Istituto d’arte al Primo Studio di Stanislavskij, dall’Armata Rossa all’esperienza di pugile sul ring, da cui, notato da Kulešov, approda al cinema come attore. L’esperienza all’interno del «collettivo», il gruppo sperimentale formato da Kulešov, trampolino di lancio di un’intera generazione di attori e cineasti, è decisiva (l’amicizia con il maestro rimarrà, così pure con i compagni, molti dei quali interpreteranno i suoi film) ma di breve durata: sotto le vesti dell’audace cowboy Jeddy di Mister Vest, il giovane Boris manifesta già il bisogno irrequieto di una propria via, attratto dalla ricerca di una corrispondenza totale con le infinite potenzialità di quel materiale “grezzo” che precede l’atto creativo. Più vicino a Protazanov che non allo spirito delle avanguardie, sostenuto dalla fertile intraprendenza degli Studi Mežrabpom, egli trova nel lirismo cinematografico attinto al byt, la sfera del quotidiano, una forma congeniale alla sua libertà espressiva che sin da subito si eleva a forma di una personale poetica capace di trascendere il genere stesso della commedia e che darà coerenza all’intero suo percorso artistico. Mosso da una insopprimibile passionalità verso gli aspetti più imprevisti e autentici della vita, Barnet, con estrema semplicità e amore, rivolge la propria attenzione a quella parte di umanità destinata a scomparire all’ombra di gesta memorabili. Grazie a un immaginario sollecitato in primo luogo dalle atmosfere, egli va a rovistare in quei dettagli apparentemente insignificanti ma sottilmente connotativi dell’individuo e della sua relazione con la vita. Da qui emerge l’idea di realtà a cui Barnet si affida, una ricerca di veridicità che sta alla base di quella commistione fra tragico e comico che con stupefacente leggerezza anima la sua opera. Egli sostiene che sia la vita stessa a suggerire quel principio del riso che permette di unire sfumature ritenute per convenzione incompatibili tra loro. Nei “luoghi” del quotidiano prende forma l’atteggiamento con cui i personaggi vivono le loro esperienze, il modo con cui il regista li osserva e li segue. Così Barnet dà respiro, sostanza, poesia e sincerità ai suoi film, attraverso una superficie che, al di là delle parole, lascia intravedere inattese profondità.
La naturale resistenza a ogni costrizione formale, il rifiuto della satira e dell’uso del tipaž – costruzione stereotipata del personaggio che a lungo animò il dibattito cinematografico -, la scelta di una messinscena affidata all’espressione attoriale, l’impiego di lunghi piani sequenza e campi totali, lo portarono naturalmente a sottrarsi dall’uso del montaggio teorizzato e praticato negli anni ‘20, andando a distaccarsi dalla più ufficiale suddivisione di generi dell’epoca e, in seguito, a confermare la peculiarità del suo sguardo. Perciò il suo cinema in patria, nel rigido schematismo di facili contrapposizioni, dapprima si perse sullo sfondo dei cineasti “rivoluzionari”, e, senza rientrare nel filone opposto del più leggero intrattenimento, a fasi alterne fu definito di insufficiente portata ideologica, fino a suscitare l’indifferenza che caratterizzò la fase conclusiva della sua carriera. Proprio quando, al contrario, all’estero cresceva l’interesse da parte della Nouvelle Vague francese.
Eppure, per la capacità di rimanere se stesso, Barnet fu sempre amato dai suoi colleghi, anche da chi, come Pudovkin, dominò la scena della cinematografia nazionale intrappolato, suo malgrado, inm una eccessiva ufficialità. «Sobborghi […] è pensato e realizzato contro quelle tendenze che sembra esistano come “algebra” assoluta» scriveva Sergej Jutkevicˇ el 1935. Barnet, infatti, nell’affrontare la questione dei destini individuali legati a quelli dell’umanità, risolve con naturalezza il consueto dilemma del cinema sovietico di conciliare talento creativo e modelli espressivi dominanti. L’elemento più evidente che permea tutto il suo cinema è l’idea di poter entrare negli avvenimenti storici guardandoli attraverso la griglia dei personaggi, individui comuni, colti con estrema delicatezza nella loro spontaneità quasi fanciullesca. Con loro Barnet crea l’unica realtà per lui possibile: quella dei piccoli gesti, del raggiungimento di una felicità intesa come diritto a una propria unicità, dove all’eroe viene offerta l’opportunità di compiere una scelta in base alla propria natura e a un’esigenza interiore piuttosto che a una convenzionalità narrativa.
Per questo primo corposo omaggio italiano dedicato da Il Cinema Ritrovato a uno dei più affascinanti registi della storia del cinema, si è scelto di selezionare quei film, alcuni già noti altri ancora quasi del tutto sconosciuti (i film realizzati durante la seconda guerra mondiale), che maggiormente restituiscono in modo efficace e organico l’originalità espressiva della sua poetica e soprattutto quell’immediatezza con cui egli si accostava al cinema e alla vita. Un sentire che, se visto nello svolgersi completo di una produzione che conta ventitré film, trapela per contrasto anche laddove Barnet tenta invano di pagare il tributo al sistema. Una dedizione totale, ben rappresentata sul set dall’energia coinvolgente percepita in special modo dagli attori, che non viene meno neanche nel lungo periodo più tormentato del dopoguerra, caratterizzato dal continuo vagare tra i diversi studi di produzione. Il ritorno alla Mosfil’m e la ritrovata ispirazione degli ultimi due lavori, non allevia le tensioni con la dirigenza della stessa casa di produzione: presentata la lettera di licenziamento, egli la vede accolta rapidamente e senza indugi.
I primi anni ‘60 costituiscono un momento cruciale per la storia del cinema sovietico e del Paese intero. Barnet ora pare non avere più le forze per affrontare una mancata collocazione e credere in se stesso. Provato da un profondo sconforto, si toglie la vita nel 1965, a Riga, dove gli era stata assegnata una sceneggiatura sulla guerra civile. La sua riscoperta, cominciata con la retrospettiva al Festival di Locarno del 1985 e l’attività del Musei Kino di Mosca, continua tuttora.
(Eugenia Gaglianone)
Sezione a cura di Eugenia Gaglianone