Cléo: paura e attesa tra tempo oggettivo e tempo soggettivo

In Cléo dalle 5 alle 7 il tempo gioca un ruolo fondamentale, come del resto appare evidente già a partire dal titolo.

Il film è rigorosamente suddiviso in 13 capitoli (il numero 13 richiama quel tredicesimo arcano dei tarocchi che appare nel prologo del film).
Ciascun capitolo porta un nome proprio, quello del personaggio chiave della sequenza, e un orario ben preciso di inizio e fine. Questa costruzione così rigida rimanda a certe forme del romanzo novecentesco ed in particolare alla scansione della giornata di Mrs Dalloway nell’omonimo libro di Virginia Woolf (1925).

“Tempo esatto, tempo reale, tragitto reale” scrive Varda negli appunti per la preparazione del film. Così può in effetti essere sintetizzata la singolare scelta di raccontare novanta minuti della vita di una giovane cantante senza ricorrere mai a contrazioni temporali di alcun tipo. Nessun flashback, nessuna ellissi: il tempo della storia e il tempo del racconto coincidono perfettamente e così, spiega la regista “se il mio personaggio deve salire 15 gradini, salirà esattamente 15 gradini e ci metterà il tempo necessario, secondo il suo stato d’animo”.

Proprio quest’ultima puntualizzazione è la chiave per comprendere la percezione del tempo in Cléo.

Nel film convivono infatti tempo oggettivo e tempo soggettivo. Il primo è continuamente rammentato dai numerosi orologi che appaiono in scena, o dalla voce dello speaker in radio, il secondo è invece legato a ciò che Cléo prova durante questo tempo di attesa che la separa dallo svelamento dei risultati degli esami clinici. È un tempo che appare talvolta dilatato, talvolta contratto, come le parole della stessa Cléo suggeriscono quando, ad esempio, nell’arco di pochi secondi afferma “ci resta così poco tempo” e subito dopo “abbiamo tutto il tempo”.

“Ciò che mi interessava – spiega Agnès Varda – era confrontare davanti agli occhi dello spettatore durata oggettiva e soggettiva, mostrargli tranches di tempo uguali, accuratamente indicate sullo schermo, e fargli scoprire che una certa passeggiata apparentemente interminabile e un certo episodio breve e brillante, non duravano che cinque minuti idi tempo reale”.

(Jean Clay, “Une cinéaste vous parle: Agnès Varda”, Réalités n. 195, 1962)


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