Tarda primavera. Un nuovo sguardo sul cinema del disgelo (prima parte: alba)

Programma a cura di Peter Bagrov e Olaf Möller

 

Il Disgelo è uno di quei casi in cui vengono subito in mente certe immagini e certi personaggi, un paio di nomi, una manciata di titoli: Michail Kalatozov, Grigorij Čuchraj, Marlen Chuciev, Otello (Sergej Jutkevič, 1955), Don Kihot (Grigorij Kozincev, 1957), Dorogoj cenoj (Mark Donskoj, 1957). Poi generalmente si passa alla generazione degli anni Sessanta, momento alto della cinematografia sovietica radicato sì nel primo Disgelo – che è il periodo su cui si concentra la nostra rassegna – ma comunque diverso. Non è stato sempre così: alcuni dei film che mostreremo nei nostri due viaggi alle origini del Disgelo (una seconda parte della rassegna sarà presentata nel 2016) erano noti e persino popolari all’estero. Ma era molto tempo fa, e la bestia chiamata memoria popolare è bravissima a dimenticare.
Si noti come viene ricordato il Disgelo: tematiche di rilevanza internazionale (Shakespeare, l’inutilità della guerra) su cui si innesta una visione estetica straordinaria (il caso più memorabile è lo spettacolare virtuosismo della fotografia di Sergej Urusevskij in Letjat žuravli, Quando volano le cicogne, di Kalatozov, del 1956).Ma è questo lo spirito di Ottepel’ (Il disgelo, 1954) di Il’ja Ėrenburg, il romanzo da cui il periodo ha preso il nome? Decisamente no. Ottepel’ parla di vita quotidiana, di piccole cose, di libertà sentite e persino vissute brevemente dopo la vittoria sul nazismo, di libertà presto e impunemente soffocate. È significativo che due dei primi esponenti del Disgelo in letteratura, Ėrenburg e Ol’ga Berggol’c, fossero strettamente legati all’esperienza bellica, Ėrenburg come agitatore anti-tedesco, Berggol’c come poetessa dell’assedio di Leningrado che con la sua voce tenne alto il morale e lo spirito combattivo della sua gente. Capivano forse meglio di altri il bisogno di un po’ di joie de vivre, di qualcosa di spensierato, positivo e a volte volutamente sciocco, seppur mantenendo un atteggiamento pacato, umile e attento.
Nel cinema questo si manifesta in due modi. Innanzitutto c’è una nuova modestia d’approccio, un interesse per la vita quotidiana descritta con modalità ancora in linea con gli imperativi del realismo socialista degli anni Trenta e Quaranta eppure curiose e ambivalenti. Bol’šaja sem’ja (1954) di Iosif Hejfic e Zemlja i ljudi (1955) di Stanislav Rostockij sono ottimi esempi di un cinema realista che conosce il dubbio e tenta di superarlo; mentre l’esercizio neorealista alla maniera sovietica di Jurij Ozerov, Syn (1955), mostra quanto cupo e disperato potesse diventare questo atteggiamento, un cinema di tipi ‘grigi’. Ci sono poi le molte declinazioni del cinema di genere – la commedia brillante (Švedskaja spička, Konstantin Judin, 1953), la commedia musicale (Karnaval’naja noč’, Ėl’dar Rjazanov, 1956) e il film d’avventura (More studënoe, Jurij Egorov, 1954; Kortik, Michail Švejcer e Vladimir Vengerov, 1954), che offrono ampie possibilità di fare le cose diversamente, nei contenuti e nello stile, con la complicità di un pubblico che conosce le regole e sa capire e apprezzare quando vengono piegate e a volte perfino violate.

Peter Bagrov e Olaf Möller

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