PETER LORRE, STRANIERO IN TERRA STRANIERA

A cura di Alexander Horwath

La sua voce evoca angeli e demoni, il suo corpo e il suo volto sono quelli di un bambino oppresso dal senso di colpa. Charles Chaplin lo definì “il più grande attore vivente”, e per il suo amico Bertolt Brecht fu semplicemente l’interprete ideale. Ma Peter Lorre (1904-1964) è anche Un uomo perduto. Scelse questo titolo per la sua unica esperienza di regia e molti studiosi lo applicano a tutta la sua carriera. È una stella errante nella galassia delle icone del cinema: allontanandoci dalle sue false promesse per attirarci in un mondo di disagio, ci ha offerto una rappresentazione tra le più fedeli dell’uomo del Novecento. La sua personalità fuori e dentro lo schermo è il risultato frantumato di un percorso che ha attraversato il modernismo e i fascismi europei, la tossicodipendenza e l’esilio, la cultura del denaro e la fama: in essa si riflettono volti e maschere del suo tempo. È su questa mappa che si situano i temi dei suoi film migliori e le sue interpretazioni più intense. “Perseguitato dal precoce successo in M di Fritz Lang e da una malattia cronica, dagli stereotipi hollywoodiani, dal maccartismo e dall’indifferenza della società postbellica della Germania Ovest, Lorre non realizzò mai appieno le sue potenzialità”: sintesi come questa, seppure non inesatte, tendono a non vedere gran parte di ciò che questo programma tenta di riportare alla luce. Fatta eccezione per l’interpretazione dichiaratamente ‘espressionista’ in The Beast with Five Fingers, non ci concentreremo sul manto di orrore ed esotismo che fu cucito addosso a Lorre dagli studios e dai loro pubblicitari, né sugli amatissimi ruoli di fedele compagno di Humphrey Bogart alla Warner Bros. Speriamo invece di riuscire a illustrare gli abissi di tristezza e le vette comiche raggiunti da Lorre in ruoli più sostanziali, che gli venissero da grandi maestri (fu una spia straniera per Hitchcock, Rodion Raskol’nikov per Sternberg) o da nomi meno nobili come Granowsky, Ratoff, Florey e Lloyd.
The Face Behind the Mask, geniale come titolo di film e come definizione per Lorre, evidenzia alcuni tratti fondamentali del lavoro dell’attore: fatalismo, angoscia, la dubbia morale borghese, le sfumature dello sradicamento nel personaggio dell’immigrato. Possiamo sovrapporre questo “volto” a quello di Kaspar Hauser – progetto sognato per tutta la vita e mai realizzato – e vederlo come un trovatello: László Löwenstein, nato alla periferia di un Impero. A diciannove anni fu ribattezzato Peter Lorre dall’inventore dello psicodramma, Jacob Levy Moreno, del cui Teatro della Spontaneità viennese era entrato a far parte. Quarant’anni dopo la sua carriera si sarebbe conclusa con un film intitolato The Patsy. Oggi la descrizione migliore è quella esistenzialista di Elfriede Jelinek: “Lorre è la voce alta dentro di noi che ci fa capire di essere stati strappati da ogni contesto, sviliti”. Ma possiamo anche prendere in parola il trovatello quando diabolicamente accetta l’ammonimento di Erich von Stroheim: “Senza di me saresti perso in questo mondo sofisticato di uomini scaltri e donne intelligenti”, e Lorre: “Sì, sono solo un bimbo nel bosco”.

Alexander Horwath

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