Omaggio a Michael Curtiz

Nemmeno il più ambizioso degli archivi cinematografici riuscirà mai a presentare una retrospettiva completa dei film di Michael Curtiz (Mihály Kertész, nato in Ungheria nel 1888 e morto a Los Angeles nel 1961). Noi abbiamo optato per un compromesso che si concentra su due “periodi”. In primo luogo abbiamo i film muti del periodo americano di Curtiz, stranamente meno noti della sua produzione mitteleuropea, già presentata a Bologna probabilmente nel modo più esauriente possibile. Noah’s Ark (1928) è un film relativamente conosciuto, ma perlopiù in una versione mutilata in base alle esigenze commerciali della successiva distribuzione sonora, mentre in questa occasione ne vedremo la versione originale restaurata. Alcuni conoscono già The Third Degree (1926), ma uno dei film in programma, Good Time Charley (1927), è una vera scoperta che nessuno, nemmeno uno specialista del calibro di Richard Koszarski, ha mai visto. E ora possiamo presentarlo grazie allo straordinario impegno con cui la Library of Congress ha sostenuto la nostra causa. Abbiamo poi il fior fiore della produzione di Curtiz agli esordi del sonoro, ovvero film come The Cabin in the Cotton (1932), The Strange Love of Molly Louvain (1932), Jimmy the Gent (1934), The Case of the Curious Bride (1935), tutti in un certo senso delle rarità. All’epoca Curtiz era ormai un professionista temuto e rispettato che lavorava con grandi cameraman come Sol Polito e Tony Gaudio e con lo scenografo Anton Grot. Il suo inglese zoppicante era un’inesauribile fonte di battute. Persino nella lontana Finlandia si parlava di lui, come testimonia un interessante articolo di un giovane poeta finlandese, Henry Parland (1908-1930), che considera Noah’s Ark una svolta decisiva, un’opera in cui “gli eccessi del potere del regista” si impongono sui volti degli attori e sulla presenza delle star. Parland si rammarica del fatto che la grandezza ultraterrena e intangibile “delle vere star del cinema” stia scomparendo. Naturalmente ciò non è avvenuto e Curtiz ha saputo dirigere sapientemente le mirabili e ispirate interpretazioni di James Cagney, Bette Davis, Kay Francis, William Powell, Spencer Tracy, Boris Karloff, Claude Rains e naturalmente di Errol Flynn e John Garfield. Avremmo potuto fare altre scelte altrettanto motivate: The Mad Genius (1931), Doctor X (1932) e Mystery of the Wax Museum (1933) – macabri esercizi di horror in Technicolor bicromatico –, The Kennel Murder Case (1933), 20.000 Years in Sing Sing (1933), Female (1933), Mandalay (1934), Black Fury (1935)… In realtà non è tanto la selezione che conta, quanto l’idea che questi quattro film lascino già intravedere qualcosa delle successive e più ambiziose opere del regista. Le tematiche principali si ripetono – ambizione, spettacolo, sesso – e sono sempre trattate con un’estrema padronanza del genere (o dei generi) unita a una maniacale volontà di infrangere ogni tipo di regola. L’universo visivo di Curtiz possiede più sfumature rispetto a quello di altri prolifici registi della Warner Brothers (in particolar modo di registi americani come Lloyd Bacon o Mervyn LeRoy), anche se William Dieterle ne condivide ambizioni e capacità. “Noi non facciamo dell’arte, Mike”, continuava a ripetere il produttore Hal Wallis, che riceveva l’eloquente risposta di Curtiz: “Lo immagino”. Riportiamo volentieri le parole con le quali John Baxter descrive Curtiz: “La ferocia che possiedono i suoi film implica un rifiuto a lasciarsi dominare dalla materia che si ha a disposizione. Nessuno era più esperto di lui nel forzare il ritmo del film, nel costringere alla sottomissione anche le star più intransigenti. Odiato dagli attori, ricordato soprattutto per il suo inglese stentato dal forte accento ungherese, Curtiz sembra incarnare una tradizione europea totalmente agli antipodi rispetto all’eleganza e all’arguzia di Lubitsch e dei suoi colleghi alla Paramount. La Germania di Curtiz è quella della Reeperbahn, dei bordelli di Berlino, dei bassifondi di Monaco e di Amburgo. Non stupisce che i suoi film siano tra i più spietati, grotteschi ed erotici della storia del cinema”.

Peter von Bagh