Omaggio a Betsy Blair

Sono sempre stata consapevole di quanto Gene [Kelly] ed io, e tutti i nostri conoscenti, vivessimo in un’enclave felice, protetta e produttiva. A Beverly Hills e Westwood vivevamo un po’ come gli Inglesi a Hong Kong, protetti dalle difficoltà e dalla miseria che si nascondeva dietro le file di alberi che costeggiavano le nostre strade. Qualche anno dopo decisi di iscrivermi al Partito Comunista. Gene non aveva mai obiettato a nessuna delle mie attività, ne condivideva molte, e non avrebbe cercato di fermarmi. Ma allora, appena congedatosi dalla marina, mi disse: “Tutti i regimi sono un male”, e poi, con un sorriso di condiscendenza, “e tu saresti la peggior comunista del mondo”. Feci richiesta al mio mentore, Lloyd Gough, nel cui appartamento di New York avevo frequentato alcuni corsi di marxismo. Mi portò a fare un giro sulle colline di Hollywood per comunicarmi la notizia: “il Partito ha deciso che non è una buona idea, perché tuo marito è un uomo molto importante e non è un nostro membro”. Poi cercò di consolarmi dicendo “Potrai esserci altrettanto utile dall’esterno”. Ne fui un po’ delusa, ma forse anche sollevata. Temevo che non sarei riuscita a sottomettermi a nessun tipo di controllo. Forse Gene aveva ragione, nessuno mi conosceva meglio di lui.

Ma Gene non diventò mai anticomunista. Credeva nei sindacati, nella libertà di pensiero, nella giustizia sociale e nell’uguaglianza razziale. Non abbandonò mai i suoi principi democratici e visse seguendoli fino in fondo. Firmava petizioni dopo averle lette attentamente. Faceva donazioni. Ai tempi della caccia alle streghe a Hollywood, del Comitato per le Attività Anti-Americane, della lista nera e del maccartismo, restò saldamente fedele ai suoi principi. Si unì al gruppo di stelle che da Hollywood volò a Washington in difesa degli Hollywood Ten e, a differenza di Humphrey Bogart, non lo rinnegò mai. Per molti anni Gene continuò ad aiutare molti degli scrittori finiti sulla lista nera, offrendo loro del denaro e cercando di fargli avere lavori sotto banco. (…)

Forse ero un’eccezione, non so perché, ma non mi sono mai inserita nello stile di vita hollywoodiano. Non desideravo una piscina o una bella macchina. Dopo due viaggi nel freddo inverno di New York riscaldata dalla mia pelliccia di visone, scoprii di non averne bisogno. La scambiai con una giacca di castorino per mia madre, una stola in visone bianco che avrei usato alle prime e una pelliccia di coniglio color verde scuro. Credo di averlo ereditato da mia madre, che era democratica. Non volevo sembrare una donna ricca. Ho tenuto la mia Chevrolet per una vita. Per giustificarmi, potevo sempre indicare Katharine Hepburn, che non aveva mai voluto una Mercedes o una Lincoln Continental. Avevo abiti da sera per andare alle prime o alle feste, ma di solito andavo in giro in blue jeans, oppure in gonna di cotone o con una camicia di Gene. (…) Quando cerco di capire la ragazza che ero e la donna che sarei diventata, mi vedo solo come moglie discreta, madre amorevole, un’aspirante attrice politicamente ingenua. Ma io dove sono? Dov’è la mia vera essenza, quella che ci portiamo tutti dentro? È sempre stata con me, lei che sa sempre la verità, che vede tutto e che non ha paura di avere una propria opinione.

Betsy Blair, The Memory of All That, Knopf, 2003