La messa in scena della guerra

I cinque anni di Seconda guerra mondiale che sconvolsero il mondo, e la vita di ogni individuo nel mondo, produssero anche la più ampia misura di realtà e irrealtà che il cinema si fosse mai trovato a riflettere. Lo shock della guerra sembrò riprecipitare gli spettatori nei tempi dei Lumière: si manifestò un improvviso interesse (e fiducia) nei confronti del documentario come della fiction, e una necessità di tornare a respirare l’aria originaria del cinema, la sua capacità di imbalsamare la vita. Il patrimonio cinematografico dell’epoca ne offre una suggestiva, lampante evidenza: è un cinema del conflitto e dell’ambivalenza, un cinema intenso di verità e di nobiltà come di menzogna e di male, o capace di toccare il più basso punto morale mai raggiunto nella sua lunga storia.

La guerra è una zona tra la vita e la morte, e come tale arricchisce e rilancia la stessa idea di finzione, in un intreccio di reale e immaginario quale raramente si produce in tempi normali. Il ‘reale’ aveva una sua drammatica evidenza, l’ ‘immaginario’ si spingeva fino a limiti non immaginabili – della propaganda come dell’utopia. La prima vittima, come in tutte le guerre, fu la verità: le dirette menzogne o la sfacciata manipolazione, sgombrato il campo d’ogni sottotono moralistico, rimangono allucinatorio denominatore comune dell’intero periodo e determinano un diffuso, onirico senso di irrealtà – come se tutti i film non fossero che una note in calce a A Matter of Life ad Death (Michael Powell ed Emeric Pressburger, 1946).

Il presunto materiale ‘realistico’ (perdipiù prodotto dalla parte ‘buona’, o dei vincitori) non sfuggiva certo alla manipolazione, a cominciare da Why We Fight. La più celebre serie documentaria sulla Seconda guerra mondiale venne supervisionata da Frank Capra, per il quale la finzione era il centro dell’universo. Esattamente per questo Why We Fight aveva la dimensione che André Bazin intuì nel suo magistrale À propos de ‘Pourquoi nous combattons’:

Il dramma, inoltre, si recita ‘davvero’, poiché le comparse hanno accettato di morire entrando nel campo (di battaglia) della macchina da presa, come lo schiavo gladiatore nella pista del circo. Grazie al cinema, il mondo realizza un’astuta economia sul preventivo delle sue guerre poiché queste vengono utilizzate a due fini, la Storia e il cinema, come quei produttori poco coscienziosi che girano un secondo film nelle scenografie troppo dispendiose del primo. In questo caso, il mondo ha ragione. La guerra, con le sue messi di cadaveri, le sue immense distruzioni, le sue innumerevoli migrazioni, i suoi campi di concentramento, le sue bombe atomiche, si lascia di molto dietro l’arte d’immaginazione che pretendeva di ricostruirla.

Come lo studio dei materiali dimostra, quindici anni dopo la differenza dei due presunti opposti sfuma: il documentario diventa finzione, la finzione diventa documentario. Quasi ogni film dell’epoca è un paradosso, e ciò diventa fonte di una spesso insolita ricchezza cinematografica.

Peter von Bagh, Cinegrafie, n. 18, 2005