Armoniosa ricchezza. Il cinema a colori in Giappone

Programma a cura di Alexander Jacoby e Johan Nordström

 

Quando Jigokumon (La porta dell’inferno) giunse negli Stati Uniti, nel 1954, il critico del “New York Times” Bosley Crowther celebrò “l’armoniosa ricchezza di un colore che si rivela all’altezza del grande cinema contemporaneo”. Il successo del film a Cannes, dove vinse il primo premio, e a Hollywood, dove prese l’Oscar per il miglior film straniero, doveva molto all’uso visivamente sontuoso del procedimento americano Eastmancolor.
Ma in Giappone la transizione al colore fu un’esperienza varia e sfaccettata, come tenta di illustrare questo programma, che inaugura un’indagine sui primi anni del cinema a colori nel paese del Sol Levante. Pur essendo sostanzialmente un fenomeno del dopoguerra, gli esperimenti con il colore risalgono già agli anni prebellici. Come in altri paesi, anche in Giappone i muti venivano colorati con viraggi e imbibizioni: lo dimostra il recente restauro, presente nel programma, di una delle rare pellicole del muto sopravvissuta con i colori originali. In seguito nei tardi anni Venti ci fu un tentativo di realizzare film a colori utilizzando il procedimento di importazione Cinecolor.
Il grosso della retrospettiva si concentra però sugli anni Cinquanta, periodo in cui il cinema commerciale giapponese intraprese il graduale passaggio al colore. Nei primi anni del secondo dopoguerra il procedimento nipponico Fujicolor era stato impiegato in svariati cortometraggi e in sequenze colorate all’interno di lungometraggi in bianco e nero, ma fu solo nel 1951 che venne prodotto il primo film interamente a colori, Karumen kokyo ni kaeru (Carmen torna a casa), girato alla Shochiku in Fujicolor. Un nuovo restauro digitale sarà proiettato a Bologna nel 2016 con seconda parte di questo programma.
Nella prima metà degli anni Cinquanta, avvalendosi di una serie di registi che comprendeva autori quali Keisuke Kinoshita e Kenji Mizoguchi e sapienti artigiani quali Kazuo Mori e Hideo Oba, tutti i maggiori studios giapponesi produssero film a colori. Alcuni di questi usavano procedimenti messi a punto in Giappone, quali il Fujicolor e il rivale Konicolor della Konishiroku (in seguito Konica), ma ben presto furono tecnologie d’importazione come l’economico e accessibile procedimento a una pellicola Eastmancolor a conquistare il mercato. Nel frattempo i registi esplorarono e perfezionarono le ricche potenzialità artistiche del nuovo mezzo, sia per riportare in vita il passato, sia per documentare un presente in rapida trasformazione.

Alexander Jacoby e Johan Nordström

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