CINEMALIBERO

A cura di Cecilia Cenciarelli

La sottomissione femminile all’interno della società patriarcale, letteralmente intesa o come allegoria di un regime totalitario, è uno dei temi che attraversa con più coerenza le opere presentate quest’anno. A partire da due capisaldi del cinema femminista sul calare degli anni Settanta come La Nouba des femmes du Mont Chenoua e Khak-e Sar bé Mohr. Assia Djebar in Algeria e Marva Nabili in Iran (ma il film sarà trafugato e completato negli Stati Uniti), riescono a creare uno spazio cinematografico propriamente femminile attraverso una ricerca formale distintiva. Se Djebar si ispira alla tradizione musicale classica arabo-andalusa per raccontare la guerra di liberazione delle donne algerine, Nabili riconosce nella teoria brechtiana, nella poesia e nella tradizione miniaturistica persiana le matrici del suo cinema. La sua Jeanne Dielman, Roo-Bekheir, pagherà la sua presa di coscienza e il suo rifiuto del matrimonio addirittura con un esorcismo.
Respingendo l’interpretazione di chi vide in Bona la storia di un amour fou, Lino Brocka chiarì che il suo vero intento era puntare l’obiettivo sul patriarcato per denunciare la violenza e l’alienazione sotto le leggi marziali di Marcos. Ancora meno celata l’allegoria del regime di Assad nel personalissimo Nujum An-Nahar, per cui il maestro siriano esule in Francia Ossama Mohammed racconta di essersi ispirato alla commedia georgiana e al cinema di Ettore Scola. Mohammed è anche co-sceneggiatore di al-Leil, di Mohamad Malas, in cui il grande regista siriano torna a Quneitra, città natale sulle alture del Golan, tra il 1936, anno delle prime rivolte contro gli inglesi e i sionisti in Palestina, e l’anno della distruzione della città.
Un altro disfacimento familiare che si consuma sotto gli occhi dei patriarchi è al centro dell’elegiaco Māyā Miriga, anche se qui lo sguardo del regista Nirad Mohapatra (completamente sconosciuto in Occidente) non sembra insistere su una vera critica a un sistema sociale che costringe le donne alla schiavitù domestica, quanto sulla nostalgia legata alla fine di un mondo ancestrale. Come Khak-e Sar bé Mohr e Nujum An-Nahar, anche Camp de Thiaroye di Sembène Ousmane fu censurato nel suo paese per paura di turbare i rapporti con la Francia, dove pure fu invisibile per un decennio. Prodotto grazie a una cordata interamente panafricana (Tunisia, Senegal, Algeria), è una condanna senza appello al massacro dei fucilieri senegalesi, giustiziati dallo stato maggiore francese al ritorno dalla guerra. Di un’altra pioniera combattente come Sarah Maldoror presentiamo, infine, la luminosa ‘trilogia del carnevale’, realizzata in onore dell’amico Amílcar Cabral per celebrare la cultura guineana e capoverdiana come elemento di resistenza e liberazione dalla dominazione coloniale.
Infine, uno dei primi film baschi dopo la fine della repressione franchista, Tasio è, nelle parole di Armendariz: “un film sulla ‘libertà furtiva’, che si nasconde per sfuggire alle norme e alle convenzioni”.

Cecilia Cenciarelli

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