Cinema di propaganda: 1947-1962. Democrazia Cristiana – Partito Comunista Italiano
DEMOCRAZIA CRISTIANA – PARTITO COMUNISTA ITALIANO
Il 28 giugno 1948, settanta giorni dopo il 18 aprile, a Reggio Emilia, il proiezionista cinematografico Mario Chiodoni fu “assalito da elementi di sinistra e derubato della pellicola Noi vivi, con Alida Valli e Rossano Brazzi. La quale fu successivamente data alle fiamme”.
Poiché l’ininfiammabilità è di qualche anno dopo è molto probabile che gli aggressori di Chiodoni abbiano finito col rimediare un bello spavento se non qualche ustione: la vampa del nitrato è improvvisa e devastante. È altrettanto probabile che l’esercente di Reggio Emilia che aveva programmato Noi vivi, abbia rinunciato alla proiezione di Addio Kyra, il sequel del kolossal antibolscevico prodotto dalla Scalera nel secondo anno di guerra.
La pellicola brucia.
Le cronache delle questure di quegli anni sono piene di tafferugli provocati da proiezioni di film di propaganda. Il che contribuiva a legittimare le restrizioni e i veti all’importazione dei film sovietici comminati dal sottosegretariato allo spettacolo alla ditta del Partito Comunista Italiano, la Libertas Film con l’accusa di minaccia turbativa dell’ordine pubblico e di incitamento all’odio di classe. La Libertas Film di Roma, via G. Alberoni, 7, con un listino di una decina di titoli sovietici a stagione avrebbe voluto limitare e ribattere gli effetti oppiacei delle quattrocento pellicole yankees (si arrivò al 97% e oltre del prodotto cinematografico globale statunitense) che ogni anno allagavano il nostro paese.
Quel giovanissimo sottosegretario era Giulio Andreotti. Ma c’è ben di più di interventi come questi divieti, se a 57 anni di distanza ci si ricorda ancora della “potente luce di intelligenza delle tecniche di censura da lui ideate” (Gian Piero Brunetta), mentre invece si è persa traccia dei Carneadi che gli succedettero: Bubbio, Ermini, Ponti, Magrì, Tupini, Ariosto, Brusasca. Per la verità ci fu anche Scalfaro, ma una storiografia tendenziosa e ostile lo ricorda quasi solo per le cazzarolette (le foglie di fico) e la signora con il prendisole. Io sono sicuro che andremo avanti ancora per anni a discutere e litigare sul ruolo svolto dal sottosegretario. Ma è certo che servì il governo, non il partito, e lo servì sei volte, dal terzo all’ottavo governo di Alcide De Gasperi.
Il campo marxista si occupò più del film, dell’estetica, dell’ideologia, lasciando ai cattolici il cinema, l’industria, gli apparati. Ma il campo cattolico non fu mai coeso ed univoco come la propaganda comunista credette o volle far credere. In realtà esso fu unito solo nello sforzo della propaganda, nell’apice dello scontro nella primavera del 1948, quando “fu in gioco la vita e la morte di tutti”. Superato quel momento cruciale prevalsero nuovamente le divisioni e non solo nella gestione e nella intersecazione degli apparati delle categorie professionali, degli interessi di parte o di fazione. Ritornò fra i cattolici il disaccordo sulle questioni di fondo, sulla “filosofia” dei rapporti fra lo Stato e il Cinema: un rapporto di attrazione/ripulsione in cui presso tutti i grandi leader democristiani da De Gasperi e Fanfani tendeva a prevalere la ripulsione.
Nell’iperpragmatico Andreotti no: lui amava Marika Rökk, il film sul dottor Jekyll con Fredric March, Duello al sole. Fanfani costruiva le case e Andreotti collaborava discretamente con Ponti a produrre Totò cerca casa. Per questo Fanfani avrebbe voluto mettere il cinema tutto sotto l’egida dell’Industria o perfino dell’Agricoltura. Avrebbe voluto per dirla con uno slogan da piazza “Meno film e più case”. Slogan a cui il sottosegretario replicava così: “Chi ancora versa qualche lacrima sulle erogazioni disposte dallo stato in favore dell’industria cinematografica, può ottenere anche successi oratori dicendo che, invece di dare qualche milione ai produttori di Totò cerca casa, meglio sarebbe stato destinarli all’edificazione di alloggi per i senza tetto e all’ampliamento della rete delle fognature, così poco sviluppate in tante zone dell’Italia centromeridionale. Se non avessimo una produzione italiana dovremmo ricorrere soltanto alle produzioni straniere, e questo significherebbe gravare il debito della bilancia commerciale italiana di un fortissimo carico in prevalenza verso la zona del dollaro. Altro che giovare alle case popolari e alle fognature!”.
Per la prima volta gli archivi audiovisivi della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano, con la collaborazione del progetto Italia Taglia, si aprono congiuntamente, selezionano e mettono a confronto alcuni loro film di propaganda degli anni della guerra fredda, la maggior parte dei quali non erano mai più stati proiettati in pubblico dagli anni della loro realizzazione.
Perché nessun prodotto audiovisivo è più deperibile, fuggevole, occasionale del cinema di propaganda. Può ex abrupto precipitare chimicamente, caricarsi di segno opposto, ottenere l’effetto contrario, diventare impresentabile, fare autogoal.
In questa prima uscita pubblica del nostro progetto abbiamo selezionato i film da mostrare in base a quattro criteri. 1o) Un criterio archivistico/logistico: film di cui è stata fatta una prima sommaria identificazione. Di molti film, soprattutto dell’area cattolica, non è stata ancora ultimata l’identificazione e/o il recupero delle copie esistenti e il controllo dei credits. 2o) La varietà dell’offerta e delle fonti. In compatibilità con il palinsesto di una manifestazione affollatissima, una vera passerella di archivi internazionali, mostrare un carotaggio piuttosto ricco. 35 titoli, di cui solo 4 o 5 in una short version d’occasione, per indicare subito la vastità del territorio da esplorare. 3o) Sempre per motivi di palinsesto, abbiamo dato la precedenza alle opere più brevi, sacrificando in questa fase film più lunghi. 4o) Privilegiare numericamente in questa doppia selezione comparata i film dei cattolici, il campo più ignoto e sparpagliato, più anonimo ed indecifrabile. Una scelta che rispecchia fra l’altro la disparità originaria delle forze.
Il fronte cattolico-governativo fu variegatissimo. I film dell’Istituto Luce, i documentari della Documento Film, i numeri speciali della Incom in occasione di congressi o di eventi eccezionali di cronaca come il Polesine, i pamphlet duri e frontali dei Comitati Civici; i film del piano Marshall (alcuni di produzione americana e di distribuzione Usis, altri di una società angloitaliana, la Phoenix Film); poi i film targati Spes (qual è il rapporto con la omonima società di Catalucci?) o DC Ufficio Stampa e Propaganda….
…e, poi, la Radiotelevisione Italiana, fiancheggiata nel suo secondo anno di emissione, 1955, da una serie di cinegiornali Spes discretamente curiosi nella loro rudimentalità e progressione. Nel primo di essi appare il solo Fanfani, che nel secondo viene “coperto” da tappezzeria di repertorio, per farsi poi affiancare nel terzo da Mariano Rumor e da qualcun altro dei suoi, per finire in quelli successivi con una piccola partecipazione di delegati provinciali naturalmente toscani. Insomma vere e proprie prove tecniche di radiotelevisione di governo e di tribuna elettorale.
Prove tecniche che culmineranno in un documentario mediaticamente ghiotto e profetico: un numero speciale della Settimana Incom (di cui per la verità esiste anche una versione più breve nel cinegiornale Ciak di Rizzoli) diretto dal blasettiano Ubaldo Managhi sulle celebrazioni liturgiche del primo maggio aclista dell’anno 1956. Con cortei, omelie ed atterraggio di un Cristo bronzeo elitrasportato in diretta tivù Roma-Milano. Con somma gioia di Federico Fellini che tre anni dopo, nella sequenza di apertura della Dolce vita imbarcherà sullo stesso elicottero, che trasporta il Cristo lavoratore, anche Marcello e Paparazzo.
Selezionare i documentari, anche per la vastità delle fonti che van oltre le collezioni conservate dall’Istituto Sturzo, significa addentrarsi sul terreno del gusto critico, della varietà delle opinioni. Il documentario, negli anni della nostra ricerca, funzionò oltre che da palestra sperimentale anche da bastone e da carota del governo nei confronti degli uomini dell’industria. Con una politica, quella degli abbinamenti e dei ristorni che consentì – è stato scritto – a documentari come Il lago della sete o Terrecotte di incassare dallo Stato somme che superavano quelle portate a casa a borderò da film impervi come La terra trema o Umberto D. o La macchina ammazzacattivi. Non c’è dubbio che la ingentissima produzione dei documentari del Luce o della Documento Film di Gianni Hecht Lucari funzionò da megafono della Ricostruzione. Principale compito ideologico di questo cinema di propaganda mimetizzata era quello di contrastare e smontare le false verità, la cosiddetta “autodenigrazione nazionale” del cinema neorealista o impegnato di denuncia: sud, periferie, borgate, irrigazione, bonifica, la ripresa delle opere pubbliche, il ritorno al lavoro nei campi, la ripresa della produzione nelle fabbriche e nei cantieri navali, l’incontestabile miglioramento complessivo delle condizioni di vita degli italiani. Abbiamo detto che il cinema di propaganda strettamente inteso di area cattolica è in maggioranza anonimo: chi sarà mai (ecco un primo quesito per lo smaliziatissimo pubblico del Cinema Ritrovato) il regista di un’opera non firmata e dalla struttura e dai valori formali solidissimi come La verità della scomunica?
Lo storico Gian Piero Brunetta volendo, per scherzo ma nemmeno troppo, quantificare la presenza percentuale dei quadri cattolici nei ranghi dell’industria del cinematografo, ha avanzato una stima del 7%. Ma forse è solo un omaggio al film di Billy Wilder su Sherlock Holmes.
Abbiamo quindi anche noi immaginato che da questo setaccio di opere “firmate” ci venga richiesto di fare delle “scoperte”, di “lanciare” qualche nome, di esibire dei gioiellini. E allora, se proprio dobbiamo, anche in questa circostanza, ne proponiamo uno: quello di Giorgio Ferroni, di cui verrà proiettato un documentario Luce dal titolo La scuola dei grandi, dedicato alla piaga dell’analfabetismo negli adulti. Ferroni documentarista in Spagna per l’Asse (Los novios de la muerte), cineasta nella campagna di Grecia, ferito in guerra e mutilato, aderito alla RSI per il cinema e la propaganda del ministro Malasomma, epurato per sei mesi e poi perdonato. Perdonato all’italiana, e cioè a tempo di record, se nel 1947 già dirige per l’ANPI veneto un lungometraggio di soggetto e ambiente partigiano, Pian delle stelle, scritto da Indro Montanelli. Documentarista Luce nei primi Cinquanta e poi regista snobbatissimo di film di genere e di serie B per tutto il decennio fino alla “riscoperta” tendenziosissima di opere di culto come II mulino delle donne di pietra o di un minikolossal con Steve Reeves, La guerra di Troia.
Insomma un bell’esempio di lunga vita di un cineasta italiano… Dei film del Piano Marshall, in attesa di vedere i “classici” di titolo americano tràditi dalle filmografie (The Appian Way, Land Redeemed, The Miracle of Cassino, Village without Water, Adventure in Sardinia) salvo scoprire magari che si tratta di film d’oltreoceano solo nel titolo, proponiamo un film di finzione Dobbiamo vivere ancora di Vittorio Gallo (1949). In quest’opera di notevoli ambizioni e di grande investimento emozionale, gli aiuti in grano e carbone del piano Marshall sono sovrimpressi ed equiparati (da un’improvvisa voce fuori campo) al plasma di una trasfusione che salverà la vita di un operaio, quasi certamente comunista, delle acciaierie di Piombino che ha avuto un incidente (ma non sul lavoro) uscendo dalla fabbrica dopo aver acquistato con i pochi soldi che aveva in tasca un povero ninnolo per il suo bambino. Ma prescindiamo da queste nostre piccole perversioni da “politiques des auteurs, des petits auteurs.” Nel campo di questi documentari istituzionali filogovernativi anticomunisti ciò che conta è la qualità professionale dei contributi tecnici per lo più anch’essi anonimi, da “sveltoni” (alla Marino Girolami, per intenderci e per citare uno che sicuramente in quegli anni con questo cinema ebbe a che fare). Nella promessa magari di occasioni più importanti, di film più lunghi e meglio pagati, certe storielline ambientate in cocuzzoli doncamilleschi, come un paese che si chiama Sopradisotto, dove può accadere che mentre si sta per andare alle urne ritorni inatteso dalla campagna di Russia un disgraziato che ci dice come stanno veramente le cose, laggiù (È tornato mio fratello, di anonimo). O l’apporto degli attori: la voce di Riccardo Billi, di Corrado Mantoni, di Lauro Gazzolo; la partecipazione di Silvio Bagolini o di Giacomo Furia (nei panni del compagno credulone Gnocco Allocco che scrive sui muri slogan inneggianti alla pasta al sugo); o una canzone di Modugno dentro al Teatro n. 5 di Cinecittà (Libero, preceduta da una barzelletta su Krusciov). O due battute di Franchi e Ingrassia biancovestiti e scudocrociati o uno sketch di Aldo Fabrizi che per una elezione al comune di Roma tira fuori l’ultima carrozzella. Se la maggior parte dei film democristiani sono film di area, sostegno e fiancheggiamento, la totalità di quelli comunisti è rigorosamente di partito. II Partito è il protagonista di tutti i film di propaganda del Pci. Tipici generi comunisti sono i funerali, gli scioperi, le commemorazioni, le feste e le sagre, il soccorso rosso, la satira antigovernativa… Il più drammatico dei funerali fu naturalmente quello di Modena del 1950 filmato da Lizzani alla presenza dei “capi dei lavoratori” Togliatti e Di Vittorio. Funerali di cui non si poté certo impedire le riprese. Mentre fu invece censuratissima la ricostruzione meccanica dell’eccidio tendente ad acclarare la responsabilità delle forze di polizia. La controinchiesta non fu autorizzata, non ne restò nemmeno un minuto: turbamento dell’ordine pubblico, incitamento all’odio di classe.
II 1956 scioglierà gli uomini del Partito dal giuramento (che era naturalmente il titolo di uno di quei film russi di cui vigeva l’obbligo di parlar bene). Dall’obbligo di essere stalinisti, dall’obbligo di frequentare il festival di Karlovy Vary, dall’obbligo di questi film di propaganda pomposi coreografici funerari. Realisti socialisti sia pure all’italiana. L’esempio più solenne, più maestoso, più riuscito ed irripetibile di questo cinema era stato il film di Lizzani sul ritorno di Palmiro Togliatti alla vita pubblica nel settembre del 1948 a due mesi dall’attentato. Si va a occhio, non c’è bisogno di conteggi particolareggiati. È molto molto probabile che questa, filmata da Lizzani quel giorno (con molte cineprese, con tutte le cineprese che c’erano), sia stata la più grande manifestazione di piazza della storia dell’Italia Repubblicana e la più colossale parata di un partito comunista occidentale. Un vero e proprio contare e ricontare i voti, a pugno chiuso, 5 mesi dopo la sconfitta.
Lizzani, che all’epoca di questo film non aveva ancora debuttato nel lungometraggio, aveva già fatto di tutto nel cinema (il critico, l’organizzatore, l’attore, lo sceneggiatore, l’aiuto). Questi film di propaganda lo confermano autore totalmente eclettico: nel senso migliore del termine. Un eclettismo che confermerà nel corso della sua lunga e onorata carriera di cineasta (producendo film con le cooperative come con Dino De Laurentiis) e nel corso della sua vita in cui gli accadrà di scrivere una storia del cinema italiano come di dirigere per quattro anni il festival di Venezia
E anche Peppe De Santis appare inequivocabilmente lui in questi lavoretti al servizio del Partito. Nel film dedicato al VII congresso del Pci che si tenne all’Adriano di Roma nel 1951, De Santis lascia pronunciare a Togliatti un frammento di discorso di non più di quindici secondi e poi, alla faccia di ogni grammatica filmica e di ogni equilibrio narrativo, lo fa applaudire per tre minuti di fila in un tripudio inesausto di ovazioni e battimani, di fiori corone e bandiere, di mondine e di delegate. Ritrovi subito l’afflato sanguigno e robusto, il collettivismo georgico dei grandi finali di coreografia proletaria dei suoi film anche in assenza del suo marchio di fabbrica: quel dolly che piantava i suoi eroi per terra e li faceva come di granito. Sciopero a rovescia è un grezzo di pochissimi minuti girato nel 1951 nel Frusinate, dalle parti di De Santis (e di Andreotti). Una comunità di paesani durante i giorni di festa si costruisce con il piccone e la pala quella strada, di cui hanno un gran bisogno e che il governo o l’autorità locale gli rifiuta. Anche se non l’ha girata lui materialmente, (noi non lo sappiamo) De Santis si è appropriato di questi pochi metri di pellicola 16 bianconera muta e li ha fatti diventare la prova generale, il copione depositato di un film suo da girare, la storia appunto di uno “sciopero alla rovescia”. Un film su cui De Santis si intestardisce, che nessuno in Italia gli farà mai fare e che lui cinque anni dopo andrà a girare in un paese fratello, la Jugoslavia: La strada lunga un anno. Una strada che non porta a Roma e che lo allontanerà quasi definitivamente dal cinema italiano.
In alcuni di questi film del Pci si intravede all’opera un autore che, mentre sta aspettando la realizzazione del socialismo, fa anzitutto l’Autore e pensa cioè come tutti gli Autori, al suo film più importante, il Film ancora da fare. E così alcune di queste opere di propaganda in controluce diventano altro: lo spunto di partenza, l’anticamera creativa di un film-film. E quei tre contadini di un paese del sud che arrivano a Roma con il treno in una alba – l’alba guarda un po’ del 14 di luglio, dell’anno 1948 – e vanno alle Botteghe Oscure per incontrare il compagno Togliatti che non è ancora arrivato in ufficio e a cui devono raccontare (a lui e solo a lui) che laggiù al paese va tutto storto e vengono quindi dirottati alla redazione dell’Unità. Ma anche lì non c’è ancora nessuno perché i compagni giornalisti, al contrario dei compagni contadini, la sera lavorano fino a tardi e allora i tre si mettono a sfogliare le collezioni rilegate del giornale di Gramsci le cui pagine si animano in una breve storia filmata del Partito. Finché non arriva la tremenda notizia del criminale attentato a Togliatti… Ebbene nelle avventure romane dei tre contadini protagonisti di 14 luglio film bolognese, discretamente rozzo e incompleto, firmato da Felice Chilanti, Mario Socrate e Tonino Meluschi è ovvio scorgere lo geniale zampino dello sceneggiatore più “cattivo” e più furbo del cinema italiano del dopoguerra, Rodolfo Sonego, l’alter ego di Alberto Sordi. Il quale essendo della scuola contadina di Zavattini (secondo la quale non bisogna mai buttare via niente) reimpasterà tutto lo spunto, di questo filmetto nel copione di Una vita difficile.
Per non parlare dei Taviani che sia nel loro film su San Miniato (perduto, ma non si sa mai…), sia nei sopralluoghi al paese natio del sindacalista martire Salvatore Carnevale preparano La notte di San Lorenzo e Un uomo da bruciare.
I Taviani, intellettuali organici, ma irregolari e flessibili fra milizia praticantato e sopravvivenza furono fra i primi uomini del Pci a capire che la tivù che gli dava occasionalmente da mangiare avrebbe irrimediabilmente cambiato e cannibalizzato tutto e tutti e molto probabilmente non ci sarebbe mai stato nessun sorpasso. E in ogni caso per farsi sentire dalla gente non sarebbe bastato stampare un numero maggiore di copie dei vecchi documentari di propaganda che Ingrao continuava a produrre e che loro continuavano a girare, alcuni addirittura in dialetto siciliano stretto, come Sicilia all’addritta (1958).
In un loro film in quattro episodi, Carosello elettorale (1962), una fantasia di parodie di veri caroselli Rai, i Taviani prendono in giro anche il celeberrimo ispettore Rock della brillantina Linetti che si toglie il cappello inchinandosi al pubblico e, mentre dice “Anch’io ho commesso un errore”, mostra in macchina una crapa pelata e luccicante su cui un pennarello nero ha scritto “Ho votato DC”. E anche questo filmettino elettorale che fece domandare a qualcuno se si può lavorare in pubblicità avendo la tessera del Pci nel portafoglio non può non rimandarci a Sovversivi. Tutto fa brodo e si può fare propaganda con tutto. Forse abbiamo esagerato con le nostre derive, scusate. Ma siamo convinti che sia iniziata una ricerca in cui gli uomini della storiografia della politica e quelli degli archivi del cinematografo avranno molte cose da scoprire.