Gio
30/06
Cinema Europa > 20:15
CAUGHT
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Scheda Film
Dreams that money can buy? Un corso di portamento e buone maniere, un lavoro di mannequin in un grande magazzino, la fortuna di incontrare un miliardario, e naturalmente una pelliccia di visone. Dreams that money can buy? Una ragazza da sposare solo per far dispetto al proprio terapeuta, e poi da maltrattare come un giocattolo danneggiato, come un trofeo venuto a noia. Pauline Kael scrisse che il miliardario aitante e nevropatico interpretato da Robert Ryan alludeva a Howard Hughes, verso il quale l’expat Ophüls nutriva una motivata acredine, giacché Hughes l’aveva tenuto a mollo quattro anni prima di fargli girare un film, e intanto si riferiva a lui come a “quell’idiota (oaf)”; e infatti il personaggio, che pure occupa gran parte della scena, ha un che di singolarmente trascurabile e vile. Però Caught è un film dalla vita travagliata, inizialmente affidato a John Berry, cineasta di formazione wellesiana (poi autore del documentario The Hollywood Ten e immediatamente trasferito nella lista nera), e dunque ci sono momenti in cui questo citizen Ryan ci pare circonfuso d’una torva grandezza, accasciato nella sua poltrona, del tutto indifferente alla vertiginosa profondità di campo che lo circonda, come a qualsiasi altra cosa. Max Ophüls entra in seconda battuta, ed è già un’umiliazione per un regista che l’anno precedente aveva firmato Lettera da una sconosciuta. La“romantic pulp fiction” (“Variety”) che si trova tra le mani forse non lo interessa; forse sta già facendo le valigie per il ritorno in Francia, dove girerà alcuni film capitali della storia del cinema; eppure riesce a fare di Caught un noir di magnetica e personale presa visiva. Certo Barbara Bel Geddes (avrà poi quel piccolo ruolo ironicamente tremendo in La donna che visse due volte, prima di essere per sempre la matriarca buona di Dallas) non è Lola e non è Madame De…, ma Ophüls fa scendere sul suo viso bread-and-butter le ombre della desolazione femminile; e se di James Mason, come dice Emanuela Martini, Hollywood “saprà sfruttare le sottigliezze d’interprete, deprimendone però il potenziale divistico”, ecco, possiamo dire che la storia comincia proprio qui, da questo buon dottore cui l’attore britannico offre per quanto può, nei tempi che gli son concessi, spessore e sensualità. La cinepresa di Ophüls è sempre quella che incantava Truffaut, la cinepresa “che attraversa la scena, corre sugli scaloni, lungo le facciate, su un marciapiede della stazione, tra i cespugli”; qui scivola fluida e corre e s’impenna nelle due stanze di un appartamentino dell’East Side, tra catini d’acqua e assi da stiro e capelli bagnati e vestaglie di ragazze, e fa della sequenza d’apertura un miracolo di stile. Il sorriso finale, invece, è pura perversione.
Paola Cristalli
Cast and Credits
Sog.: dal romanzo Wild Calendar (1946) di Libbie Block. : Arthur Laurents. F.: Lee Garmes. M.: Robert Parrish. Scgf.: F. Paul Sylos. Mus.: Frederick Hollander. Int.: James Mason (Larry Quinada), Barbara Bel Geddes (Leonora Eames), Robert Ryan (Smith Ohlrig), Frank Ferguson (dottor Hoffman), Curt Bois (Franzi Kartos), Ruth Brady (Maxine), Natalie Schafer (Dorothy Dole), Art Smith (psichiatra), Sonia Darrin (signorina Chambers), Bernadene Hayes (signora Rudecki). Prod.: David L. Loew, Wolfgang Reinhardt per Enterprise Productions. DCP. D.: 88’. Bn.
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