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01/07
Cinema Arlecchino > 14:30
ALL THAT HEAVEN ALLOWS
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ALL THAT HEAVEN ALLOWS
Scheda Film
In un’ideale tavola delle concordanze applicata ai titoli dei film americani anni Quaranta e Cinquanta, la parola heaven si guadagnerebbe un posto alto in classifica: indicando, quasi sempre, un paradiso amaro. Quale cielo potrà mai accogliere Gene Tierney, femmina folle e assassina nel film di John Stahl (Leave Her to Heaven)? E se il tocco laico di Lubitsch permette a Don Ameche di decidere in extremis che il paradiso può attendere, mentre un ultimo bel paio di gambe no (Heaven Can Wait), la censura celeste non ha pietà per la monaca Deborah Kerr e il marine Robert Mitchum, dispersi e parecchio turbati l’uno dall’altra su un’isola del Pacifico (Heaven Knows, Mr. Allison). La parola risplende più ambigua che mai al centro di questo melodramma di Douglas Sirk – e non verrà trascurata da Todd Haynes, che quasi mezzo secolo dopo, in Far from Heaven, renderà al film un elegante omaggio, o quasi-remake. “Alla produzione il titolo piaceva, pensavano volesse dire che potevi avere tutto quel che volevi. Io intendevo esattamente l’opposto. Il paradiso, per me, è avaro”. (da Jon Halliday, Sirk on Sirk).
Avaro di tutto, ma non di colori. I film che chiamano in causa il cielo sono il trionfo del Technicolor, lussureggiante o carezzevole. Qui la fotografia di Russell Metty fa vibrare ogni sfumatura dell’estate indiana, e ancor di più il foliage dell’anima di Jane Wyman, vedova non giovane e non vecchia, avviata a un malinconico autunno che l’improvvisa comparsa di Rock Hudson tinge di riflessi d’oro. Il ‘paradiso’ borghese fatto di amiche con più rughe che sorrisi e di country club for members exclusively le vieta una felicità sentimentale e sessuale segnata dalla differenza d’età e di status; come da canone sirkiano, saranno gli eventi a precipitare in modo favorevole agli amanti. A nessuna eroina di Sirk tocca però un momento così perfetto di desolazione e di intima rivolta. Scena indimenticabile: i detestabili figli, per risarcirla della solitudine, le regalano una tv: “Tutta la compagnia che vuoi… basta un giro di manopola”. Cary si vede pietrificata nel riflesso di quello schermo scuro, capisce quale imitazione della vita l’attende, e prende in mano il suo destino: la aiutano una fugace lettura di Thoreau e una slavina.
Intriso dei colori della natura, e del mito americano dell’innocenza, All That Heaven Allows è anche un film spietato. La famiglia tradizionale (la friabilità dei suoi valori, l’intreccio dei suoi egoismi) è osservata con quieto orrore. Gli spazi domestici diventano mise en scène del male e del bene: le case borghesi sono ricchi sarcofaghi senza finestre, il vecchio mulino di Rock Hudson pare l’onesta e artigianale interpretazione d’uno spirito modernista organico alla Frank Lloyd Wright. Tant’è che fuori dalla luminosa vetrata, anche il cielo concede la sua benedizione: un agnus dei avanza timido verso di noi in forma di cerbiatto del New England, “tra le più belle immagini di tutto il cinema di Sirk” (Jacques Lourcelles).
Paola Cristalli
Cast and Credits
Sog.: Edna L. Lee, Harry Lee. Scen.: Peg Fenwick. F.: Russell Metty. M.: Frank Gross. Scgf.: Alexander Golitzen, Eric Orbom. Mus.: Frank Skinner. Int.: Jane Wyman (Cary Scott), Rock Hudson (Ron Kirby), Agnes Moorehead (Sara Warren), Conrad Nagel (Harvey), Virginia Grey (Alida Anderson), Gloria Talbott (Kay Scott), William Reynold (Ned Scott), Charles Drake (Mick Anderson), Hayden Rorke (dott. Dan Hennessy), Jacqueline de Wit (Mona Plash). Prod.: Ross Hunter per Universal-International Pictures Co., Inc. · 35mm. Col.
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