All’origine del film: una trasformazione antropologica 

Il titolo del film, di “sex pistoliana” memoria (God Save the Queen è l’inno nazionale inglese ma anche un celebre brano omonimo della band inglese Sex Pistols di cui i registi sono grandi fan) parla chiaro: Dio salvi il verde

God Save the Green ha richiesto una lavorazione di circa tre anni durante i quali il soggetto si è venuto ridefinendo rispetto all’idea iniziale dei due registi di incentrare il documentario sul tema specifico del diritto al cibo e della distribuzione di esso. 

“È diventato sostanzialmente un documentario su come gruppi di persone, a varie latitudini nel mondo, attraverso il verde urbano, hanno dato un nuovo senso alla parola comunità e allo stesso tempo hanno cambiato in meglio il tessuto sociale e urbano in cui vivono”, hanno dichiarato Rossi e Mellara. 

La riformulazione del tema principale del film risponde inoltre ad un assunto che ne è alla base, una profonda “trasformazione antropologica“: dal 2007 infatti, per la prima volta nella storia, la maggioranza della popolazione mondiale vive nelle periferie urbane e non nelle campagne. L’uomo è passato dall’essere prevalentemente agricoltore e allevatore ad essere cittadino, tuttavia è proprio nelle città  che sta riemergendo sempre più la necessità di recuperare il rapporto con la terra. 

“Quell’essere agricoltori, quel bisogno costitutivo della nostra specie, in ogni cultura, di lavorare la terra,  riaffiora scardinando ritmi e obblighi del vivere urbano”.

Un bisogno che riaffiora quindi a prescindere dalla propria cultura o dal Paese in cui si vive. Ecco il motivo della scelta di dare al film una struttura a tappe dalla quale emerge, chiara, l’idea che la necessità di salvare il verde sia quantomai universale.

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