Omaggio a Marlon Brando

Pacchi di registrazioni su cassetta ritrovate, un ologramma del volto di Marlon che sembra scaturire dal mondo di là e confessarsi ai viventi, e un mucchio di spezzoni di film accuratamente scelti, di scene di lavorazione, di documenti e interviste televisivi e cinematografici. La preoccupazione principale di Marlon Brando è stata certamente quella di cercarsi interrogarsi trovarsi, nella convinzione che fosse possibile andare al fondo della conoscenza e, in sostanza, guarire, trovare la pace nell’accordo tra la propria biografia e la propria psiche, tra i fatti della società e quelli della coscienza. Il film Listen to Me Marlon, costruito a partire da questi materiali, è il tentativo di mettere insieme i pezzi seguendo in sostanza le indicazioni dell’attore, di dare unità alla parte privata e a quella pubblica della vita di un uomo celebrato e chiacchierato. Ma non si tratta soltanto di una curiosità prevedibile per uno dei rari miti duraturi della mass culture statunitense, un mito quasi mondiale, quel che il film di Riley finisce per suggerire è molto di più, come indica Brando stesso nelle sue confessioni, registrate a futura memoria. L’attore vi cita non a caso Shakespeare e maledice biblicamente la sua sorte, dopo aver arricchito, dice, centinaia di psicoanalisti e psichiatri, e si confronta con Dio, che ci sia o non ci sia fa lo stesso, per chiedersi cos’è l’uomo, e cosa sono il bene e il male e come si mescolano e rendono difficile il distinguerli.
Cosa è lui, Marlon Brando, il figlio di una madre dolce e alcolizzata, di un padre macho e violento, il giovane provinciale che diventa newyorkese negli anni che succedono a una guerra che non ha fatto in tempo a fare e che si scopre attore, e che attore!, frequentando l’Actors Studio da allievo più di Stella Adler, figura materna protettiva ma esigente, che non di Strasberg o di quel Kazan che lo porterà al successo con il Tram che si chiama Desiderio. Una fama eccessiva impedisce una vita normale. Marlon attore nuovo impone sullo schermo una fisicità di inedita forza e un modo di recitare complesso, intimo e però evidente in cui la presenza fisica va insieme all’introspezione più accanita. Diventa il segno di un’epoca e questo gli impedisce di essere solo un attore, e una vita normale. I suoi grandi film sono in realtà rari (il Tram, Fronte del porto, Viva Zapata, Il selvaggio, i film di Penn e Huston, Il padrino e Apocalypse Now, e quell’Ultimo tango in cui Bertolucci lo guidò a essere-e-fare se stesso, a svelarsi e scoprirsi impudicamente e dolorosamente e bensì trionfalmente, in un incontro-scontro attore-regista che sapeva per entrambi di ossessive pratiche psicanalitiche). Fu il successo il suo nemico, la sua difficoltà a potersene districare, e il suo amore, nonostante tutto, per quel che il successo gli portava, anzitutto il denaro.

Goffredo Fofi

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