La diva italiana: Francesca Bertini

Queste creature senza parole, che dovevano comunicare il loro sentimento col gesto, con la plasticità della persona e con lo sguardo, rimanevano in una invulnerabile e inaccessibile lontananza, al di sopra della realtà, avvolte di poesia e di mistero. Prodotto che poteva sorgere soltanto in un paese che ha il culto della bellezza. Donne, che tutti gli uomini avrebbero voluto amare, per essere amati, e che, dopo aver rappresentato tante ardenti e dolenti passioni, come aspettate al varco, un bel giorno furono vinte dall’amore anch’esse e sparirono dalla scena, per divenire spose e madri da portarsi per esempio. Notate con quanta freschezza e ingenuità Francesca Bertini, che fino a quel momento nessuna offerta o protesta per parte dei molti pretendenti era riuscita a distrarre dal proprio lavoro, si accorge d’essere innamorata e come parla dei giovani amici che le facevano dichiarazioni infuocate per iscritto: “Allora gli innamorati si cimentavano nel giuoco pericoloso dello scrivere; oggi non perdono tempo: vanno al sodo e non scrivono più”. Se non avessi saputo che Francesca Bertini è fiorentina e che, divenuta contessa Cartier, venne sposa nella villa Mirafiori a Pozzolatico, mi sarei fatto promotore di una proposta al sindaco di Firenze, per conferirle la cittadinanza d’onore. E, parlando di Firenze, acuendo lo sguardo, come per guardare lontano, con gli occhi che conservano la chiarezza e il potere della gioventù, Francesca Bertini, ancora bella, “quelle stradine…” – dice, abbassando il tono della voce. “Quelle stradine…” – facendole eco, le rispondo, in una aspirazione ancora di percorrerle che fa ringiovanire anche me. Oggi Francesca Bertini è una signora che sa tenere una conversazione, senza lasciare un attimo di debolezza nel discorso; vivacissima e addirittura battagliera, non appena si toccano quegli argomenti che formano tuttora un alimento della sua vita, nella perfetta lucidità del ricordo. Contraddirla su ciò è impresa disperata; e si può cavarsela soltanto battendo decentemente in ritirata, ridendo. Taluno mi sussurra che i films di questo tempo siano introvabili, non solo, ma che siano stati distrutti senz’altro. Voglio sperare che non sia vero. Verrebbe a mancare la testimonianza del momento più interessante della nuova arte e dell’esordio, lasciando un incolmabile e inqualificabile vuoto; per cui il nostro cinema risulterebbe un edifizio privo di fondamenta, indispensabili per le loro qualità quanto per quelle parti caduche che segnano un’epoca di grandissimo carattere nella storia del cinema italiano.

Aldo Palazzeschi, introduzione a Francesca Bertini, Il resto non conta, Pisa, Giardini, 1969