CINEMA DOCUMENTARIO INVISIBILE
“Io ritengo che i politici, di qualsiasi colore, abbiano scoperto che i documentaristi disturbano, sono inaffidabili. Il documentario si è ritrovato pian piano strangolato dall’incapacità di reggere i prezzi di mercato. A un certo punto, sette milioni bastano appena a comprare la pellicola, a pagare lo sviluppo e la stampa del positivo. Allora impariamo a stringere i tempi; impariamo a usare il 16mm che poi viene gonfiato; impariamo a fare i documentari in un giorno. E a quel punto diciamo: basta. Abbiamo smesso di fare documentari perché non era più decente, non era più dignitoso farli”.
Così racconta Cecilia Mangini nel bel film che le hanno dedicato Davide Barletti e Lorenzo Conte (Non c’era nessuna signora a quel tavolo). Ecco spiegata, con invidiabile chiarezza, una delle ragioni per cui nel corso degli anni Settanta il documentario italiano è divenuto un oggetto invisibile: lo strangolamento finanziario avallato dal disinteresse (se non dal boicottaggio) della politica.
La storia del documentario italiano non è una cesta dove basta affondare le mani per pescare il capolavoro. Al contrario, i grandi film bisogna andarseli a cercare con estrema cura. Complice (anzi, primo colpevole) un articolato sistema di sostegno pubblico che ha favorito costanti operazioni di mera speculazione sui fondi e ha finito per incentivare la quantità a scapito della qualità. E il pubblico, spesso costretto a sorbirsi in sala, prima del lungometraggio, il documentario breve, ha ben presto cominciato a detestarlo, vivendolo come una tortura da scontare prima del piacere del cinema. Di fronte al disinteresse da parte dei produttori per forme e contenuto, una schiera di registi ha approfittato del terreno libero, accontentandosi di piccole troupe e scarsi denari, per esprimere nel documentario le proprie esigenze d’artista. Abbiamo ritenuto opportuno dimostrarlo mettendo a confronto le opere di sette registi che hanno creduto al documentario come genere necessario, capace di suscitare non solo vago interesse, ma soprattutto complessità, consapevolezza civica e inaspettate forme di bellezza. Ognuno di questi autori ha le proprie storie personali, ossessioni, caratteri, predilezioni, stili non condivisibili. Qualcuno, talvolta, non ha esitato a esplorare i territori del cinema sperimentale. Uno sfondo comune lo possiamo però individuare: per tutti, il documentario doveva arrivare a mostrarci ciò che altrove non riusciva e non poteva apparire, doveva riempire un vuoto enorme. Permettendoci oggi di ritrovare gli aspetti multiformi, sorprendenti e spesso crudeli di un paese scomparso, e di interrogarci meglio sul nostro presente. Come ci ha insegnato uno dei più grandi maestri del cinema italiano, Vittorio De Seta, i documentari migliori hanno saputo fare luce su un mondo sommerso, abitato da popolazioni di invisibili.
(Andrea Meneghelli)
Programma a cura dell’Archivio Film della Cineteca di Bologna,
in collaborazione con Doc/it