Alida Valli, ritratto di una diva da giovane

Diversi sono gli elementi determinanti nella carriera di una star: la bellezza, a volte – ma non sempre – il talento, le coincidenze fortunate. Ma le ragioni del successo e della popolarità restano oscure e misteriose, spesso indecifrabili. È il caso di Alida Valli, una delle poche star italiane, la cui irresistibile ascesa si compie nel decennio cruciale tra il 1936 e il 1946, quando, arrivata al cinema in giovanissima età, la ragazzina di Pola rivela il tesoro della sua bellezza e del suo talento, passando senza soluzione di continuità da commediole evanescenti a lacrimosi melodrammi, a raffinati adattamenti di classici della letteratura. È vero che i titoli per cui verrà ricordata, i suoi capolavori (da The Third Man a Senso e Il grido), si riferiscono al decennio successivo, ma è in quei primi anni a cavallo della guerra che si costruisce, film dopo film, la sua immagine sullo schermo, che si precisa la sua personalità di donna e di attrice.

Ed è a quei primi anni che vogliamo dedicare la nostra attenzione. Sono, tra l’altro, anni di formidabili trasformazioni: l’apparente consolidamento del regime fascista, il patto scellerato con la Germania hitleriana, gli orrori della guerra, le grandi speranze del dopoguerra. Questo lo scenario, pieno di luci e di ombre, di macerie fumanti e di astratti furori, entro il quale la giovane Alida inizia la sua avventura umana ed artistica: una carriera in verità costretta dentro gli angusti confini di un piccolo mondo – quello del cinema italiano dei telefoni bianchi – tutto chiuso in se stesso, autarchico e distante, che fino all’ultimo sembra voler chiudere gli occhi di fronte al cataclisma epocale della guerra, barricato dietro le pareti insonorizzate dei Teatri di Cinecittà. È forse per via di quella insanabile contraddizione (tra realtà tragica e finzione edulcorata del cinema, tra vicenda personale e personaggi interpretati) che sul volto della giovane attrice si addensano le nuvole dell’inquietudine e la sua maschera compie in pochi anni un balzo sorprendente da un’adolescenza svagata e sbarazzina a una precoce, splendente maturità. Come se in filigrana la Storia, negata dal cinema, trasparisse in quel suo sguardo fiammeggiante, unico, come le curve di Marilyn o la camminata di John Wayne.

Sarà il neorealismo a riportare il cinema nelle strade e nelle piazze rifiorite di vita, di voci, di volti e di idee, dopo la soffocante sordina del ventennio fascista. Quello forse sarebbe stato il suo momento, quella la stagione, quello il luogo, l’Italia di Rossellini, di De Sica, di De Santis, quelli i personaggi che reclamavano la sua presenza e il suo talento; e invece per Alida – promossa sul campo dallo stato maggiore delle majors, catapultata nello star system americano – quello con il neorealismo fu un appuntamento mancato. Anzi, fortunatamente, in parte solo rimandato.

Dunque una carriera al tempo stessa esemplare e anomala, fortunata e travagliata, in anni difficili e tormentati, nel contesto di una cinematografia mortificata e compressa dall’ipocrisia e dalle censure del regime, ma già piena di straordinarie potenzialità, che di lì a poco si sarebbero espresse in una delle stagioni più felici e feconde della storia del Cinema. Una carriera – come è nel codice genetico di ogni star – irripetibile. Intimamente intrecciata con una vicenda umana che Alida ha cercato, fin dall’esordio, di occultare e difendere dietro una cortina di riservatezza e di discrezione, rifiutandosi di pagare, per quanto le era possibile, il tributo mondano e mediatico della popolarità e del divismo. Una antidiva perennemente in lotta con il suo destino di diva. Ma forse proprio di questo conflitto si nutre l’originalità della sua esperienza e l’inesauribile (e intramontabile) potenza del suo charme.

Giuseppe Bertolucci