THE GRAPES OF WRATH
T. it.: Furore; Sog.: dall’omonimo romanzo (1939) di John Steinbeck; Scen.: Nunnally Johnson; F.: Gregg Toland; Mo.: Robert L. Simpson; Scgf.: Richard Day, Mark-Lee Kirk; Cost.: Gwen Wakeling; Mu.: Alfred Newman; Su.: George Leverett, Roger Heman; Int.: Henry Fonda (Tom Joad), Jane Darwell (Ma Joad), John Carradine (Casy), Charley Grapewin (non- no Joad), Dorris Bowdon (Rose of Sharon), Russell Simpson (Pa Joad), O.Z. Whitehead (Al Joad), John Qualen (Muley Graves), Eddie Quillan (Connie Rivers), Zeffie Tilbury (non- na Joad), Frank Sully (Noah), Frank Darien (zio John), Darryl Hickman (Winfield), Shirley Mills (Ruth Joad); Prod.: Darryl F. Zanuck, Nunnally Johnson, per Twentieth Century Fox 35mm. D.: 128’. Bn.
Scheda Film
“Ho fatto di tutto per far saltare i nervi ai lettori”, disse Steinbeck all’editore di The Grapes of Wrath; “non voglio dar loro soddisfazione”. Questi non sono sentimenti che ci si aspetta che Hollywood possa approvare, soprattutto negli studi di Shirley Temple. Eppure, l’impatto del romanzo fu tale che Darryl F. Zanuck, responsabile delle produzioni per la Twentieth Century-Fox, si trovò presto a supervisionarne un adattamento più fedele di quanto un osservatore avrebbe potuto immaginare. All’uscita del film i critici americani erano in estasi. Frank Nugent (The New York Times) lo giudicò subito un capolavoro. Lo stesso Steinbeck lo considerava “un film duro e diretto, in cui gli attori sono talmente mimetizzati da sembrare quasi un documentario”. Tutto questo era comprensibile. Nel 1940 l’esperienza della migrazione della “Dust Bowl”, vissuta dalla famiglia creata da Steinbeck, era ancora da rimarginare. E le qualità del film sono innegabili. Sole cocente e ombre, più l’eleganza di Gregg Toland creano una fotografia straordinaria, che però non si traduce in immagini compiaciute. Non ci si può scrollare di dosso il duro realismo del rottame dei Joad che sferraglia lungo la Route 66 verso lo sfruttamento e la degradazione della terra promessa, la California.
Ma non ci dobbiamo neppure sentire come lo sceneggiatore del film, Nunnally Johnson, il quale disse che questo compito lo faceva sentire “come se stesse trasportando il Santo Graal”. Furore è un film di tensioni e contraddizioni. Alcune osservazioni sono pungenti, altre più spuntate. L’immaginario toccante creato da Toland, fatto di cielo, radure e strada, talvolta cede il passo agli attori in studio, intrappolati in quello spazio vuoto che ogni fondale impone. E anche la realtà viene compromessa. L’accampamento dei migranti gestito dal governo sembra un paradiso, come l’aspetto rooseveltiano del suo direttore, benevolo, imperturbabile e sempre in pantaloni bianchi.
Ma in tutto questo dov’è John Ford? Non negli elementi sociopolitici più duri presi dal libro di Steinbeck. Il suo cuore è con Tom Joad e con Ma, con lo spirito della comunità di migranti e con i suoi attori. Henry Fonda incarna energicamente il fervore morale, la spavalderia e la dignità di Tom. Fisicamente, Jane Darwell non assomiglia alla Ma di Steinbeck, magra e tirata. Nella versione di Ford è un’indomita Madre Terra, incline al sentimentalismo almeno nel tono se non nelle parole. Eppure, in molte scene chiave non esprime nessun senso di oppressione; di certo non quando gioca nostalgicamente con gli orecchini davanti a uno specchio sbiadito, o quando pensa a come sfamare la famiglia e gli altri bambini affamati dell’accampamento. Una volta accettati i compromessi, Furore è ancora in grado di fare centro.
Geoff Brown