THE ADVENTURES OF HAJJI BABA
T. it.: Le avventure di Hajji Babà. Sc.: Richard Collins, dal romanzo omonimo (1823) di James Justinian Morier. F.: Harold Lipstein. Mu.: Dimitri Tiomkin. M.: William Austin. Scgf.: Gene Allen. Su.: Ralph Butler. Ass. R.: Edward Morey Jr. Cast: John Derek (Hajji Baba), Elaine Stewart (principessa Fakzia), Thomas Gomez (Osman Aga), Amanda Blake (Banah), Paul Picerni (Nurel-Din), Rosemarie Bowe (Ayesha), Donald Randolph (califfo), Peter Mamakos (il boia), Kurt Katch (Caoush), Leo Mostovoy (il barbiere), Joann Arnold (Joanne Arnold), Veronika Pataky (Kulub), Linda Danson (Fabria), Robert Bice (Musa), Carl Milletaire (capitano), Laurette Luez (Meriam), Eugenia Paul (Shireen), Barbara James (Zeenad). Prod.: Walter Wanger, Allied Artists, 20th Century Fox.; 35mm. D.: 88’ a 24 f/s. Col.
Scheda Film
Ritengo The Aventures of Hajji Baba uno dei cinquanta migliori film di tutta la storia del cinema – discuterò dell’illegittimità di una simile gerarchia in un’altra occasione – e, in ogni caso, il capolavoro tra i film d’ambientazione «orientale», senza escludere anche il gustoso Son of Sindbad (1955), che con Hajji ha in comune le piccanti «guerriere» e può vantare alcuni bei strip-tease. Ma Hajji, dopo alcuni anni d’attesa, per me ha significato la riscoperta di uno dei talenti più liberi, più raffinati e più affascinanti di Hollywood. In passato avevo visto per caso Remains To Be Seen e colto al volo I Love Melvyn! durante gli otto giorni in cui ha brillato su Parigi. […] Il senso dell’umorismo, il comico, l’abbondanza delle invenzioni combinate all’asciuttezza delle immagini non sono in Don Weis gli indizi di un temperamento, ma gli strumenti di un equilibrio appassionatamente ricercato tra l’orrore e il fascino, la satira e il lirismo, in vista di una perfezione estetica meno superficiale, tutto sommato, di quella di un Douglas Sirk.
Ai moire agitati senza posa da quest’altro succulento cineasta, Don Weis, pur non trascurando le stoffe (Hajji), preferisce il fulgore dell’acciaio di cui sono fatte le bare (Remains To Be Seen), o dello smeraldo in cui Hajji vede non tanto il simbolo della ricchezza, ma quello del suo dominio su Elaine Stewart. Adattandolo ai propri scopi, si potrebbe credere che egli applichi il precetto del grandissimo Buster Keaton: «Drama makes the comedy better» («Il dramma rende migliore il comico»). Il che spiega i cadaveri su cui nessuno scorge un pugnale, tuttavia evidente, o gli assalti d’inutile eloquenza tra i due impresari di pompe funebri (Remains To Be Seen). E ancora il fasto dei supplizi in Hajji: schiavi gettati in una piscina o colpiti sulla pianta dei piedi, prigionieri appesi per i polsi e abbandonati in pasto agli avvoltoi. Sarebbe però sbagliato, in relazione al lieto fine di questo apologo, leggervi una parodia dell’armamentario sado-masochista delle «storie di pirati», per esempio. A dimostrarlo basta la brutalità di molti momenti (il bandito catturato che il feroce Nur-el-Din giustizia personalmente con un colpo di scimitarra). E anche l’innata serietà dell’intento iniziale: avendo constatato l’assoluta ferocia degli uomini ambiziosi e delle donne guerriere, la Principessa rinuncerà alla propria crudeltà e si abbandonerà a un uomo libero.
Gérard Legrand, in «Présence du cinéma», n. 12, marzo-aprile 1962
La critica americana, così raramente lucida, ignorò, questo film da incensare. Bosley Crowther, il critico del «New York Times», diede prova del suo osceno cattivo gusto dichiarando che avrebbe preferito vedere Bob Hope nel ruolo di John Derek. Il film ha avuto la reputazione che merita solo grazie alla chiaroveggenza di alcuni cinefili francesi, in particolare i MacMahonisti.
Jacques Lourcelles, Dictionnaire du cinéma. Les films, Paris, Robert Laffont, 1992