STRANGE VICTORY
Scen.: Leo Hurwitz; F.: Peter Glushanok, George Jacobson; Mo.: Faith Elliott [Hubley], Leo Hurwitz, Mavis Lyons; Mu.: David Diamond; Commento: Saul Levitt; Voci: Alfred Drake, Muriel Smith, Gary Merrill; Int.: Virgil Richardson, Cathey MacGregor, Sophie Maslow, Jack Henderson, Robert P. Donley; Prod.: Barnet L. Rosset, Target Films 35mm. L.: 1725 m. D.: 62’. Bn.
Scheda Film
Preceduto da due straordinari film con Paul Strand – il film ‘compilation’ Heart of Spain (1937), opera fondamentale sulla guerra civile spagnola insieme a Spanish Earth, e Native Land (1942), il più grande film del periodo sui lavoratori –, Strange Victory fu il primo film diretto esclusivamente da Leo Hurwitz, personaggio centrale nel movimento del Frontier Film. L’opera è sia una denuncia che uno sguardo interno sulla Guerra Fredda, nel momento stesso della sua nascita. La visione del regista forma una rete surrealista di immagini e suoni sulle conseguenze perverse della “strana vittoria”: il modo in cui si distruggono le speranze e i fiori del male sbocciano, il capitalismo selvaggio e l’antisemitismo si impossessano, come vampiri, di tutti gli aspetti della vita quotidiana, coinvolgendo anche le personalità che possedevano una bontà innata. Non è solo una Guerra Fredda, è anche una guerra civile. L’agghiacciante esistenza di un fascismo americano viene rivelata attraverso un collage di riprese. Hurwitz utilizza sia materiale di archivio («found footage»), sia riprese che ha realizzato lui stesso. In questo modo, come raramente capita, materiali tecnicamente diversi, collegati in uno splendido montaggio, sbocciano in un’opera visivamente meravigliosa. Decine, centinaia di volti appaiono sullo schermo, e ognuno porta una testimonianza dolorosa: sono troppi i volti terribili che si incontrano per la strada. Lì, nella familiare condizione di una vita pacifica, possiamo individuare l’orrore e il degrado, andando molto più a fondo di un semplice film dell’orrore. La brutalità di queste immagini non può essere ridotta alla banalizzazione di una propaganda “di sinistra”.
È una drammaturgia aperta che rispetta l’intelligenza dello spettatore e procede per bruschi cambi di direzione: condensazioni drammatiche, svolte illusorie nella trama (la ricerca di Hitler – “la più grande caccia all’uomo della storia”) e paradossi. Il giorno della vittoria è come un fantasma: “Se abbiamo davvero vinto, perché sembra che abbiamo perso?” I crescenti dubbi, anche nell’estate della grande speranza del 1945, vengono mostrati come un gioco di luci e ombre, qualcosa di profondamente connesso all’essenza stessa del cinema.
Peter von Bagh