MAMAN POUPEE

Carmine Gallone

S.: Washington Borg. F.: Giulio Rufini, Emilio Guattari. Scgf.: Piero Guidotti. In.: Soava Gallone (Susanne di Montalto, detta Maman Poupée), Bruno Emanuel Palmi (il marito), Mina D’Orvella (la rivale), Mario Cusmich. P.: Olumpus-film. 1840m. 35mm.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Edizione stabilita a partire da una copia positiva imbibita e virata, mai proiettata e senza didascalie, conservata dal National Film&TV Archive di Londra e da una copia positiva imbibita, con didascalie francesi, conservata dal C.N.C. – Les Archives du Film.
Del film si conosceva fino ad oggi soltanto una copia in bianco e nero senza didascalie che non permetteva di ammirare la stupefacente bellezza della fotografia originale di quello che forse va considerato come il capolavoro dell’attività giovanile di Carmine Gallone.
“[…] Ma come ci lavorava senza fame, senza sete, senza sonno, senza riposo, come ci lavorava, Carmine Gallone, ai suoi film! Ho visto al lavoro gli artisti più grandi e più scontenti o incontentabili: musicisti, poeti, romanzieri, pittori, scultori, commediografi, da Puccini, che faceva e rifaceva in un assiduo tormento, a Bracco che cento volte ritornava sopra a un dialogo per mettere o no una virgola. Mai vidi essere umano totalmente sacrificato a quello ch’egli voleva la perfezione dell’opera sua come Carmine Gallone. Per un ‘primo piano’ di Soava studiava e ristudiava una giornata, accaparrava lo stabilimento, incendiava un firmamento di lampade, utilizzava la collaborazione improvvisa del primo amico che si trovasse a passare […]”.
(Lucio D’Ambra, in Sette anni di cinema)
“Nel 1919 Carmine Gallone, poco più che trentenne, ha già avuto modo di sperimentare regole e varianti del genere divistico. Ha diretto Lyda Borelli in La donna nuda (1914), Marcia nuziale (1915), Fior di male (1915), La falena (1916) e Malombra (1916); Diana Karenne in Redenzione (1915); Soava Gallone, sua moglie, in Avatar (1915) e Senza colpa (1915). Maman Poupée è ancora un diva-film, anomalo per parziale rovesciamento dei ruoli. La femme fatale, un’opulenta e attardata Mina D’Orvella, è figura sommariamente abbozzata e relegata agli sfondi; vera diva è la donna-madre, donna-famiglia, capace tuttavia di costruirsi una sua elaborata qualità seduttiva attraverso il gioco, la maschera, la finzione. Il giro di vite divistico, tuttavia – verso la commedia, verso il realismo, verso il patetismo basso-melodrammatico – non arriva fino in fondo. Resta qualcosa a suggerire che, nella sua versione gioiosa e materna, Susetta è una finzione di donna, una poupée meccanica che solo riappropriandosi del proprio desiderio – fino al delitto – dimostra di essersi meritata il protagonismo. […] Lavorando sulla soglia tra due identità, Maman Poupée raggiunge momenti di conturbante bellezza: allo specchio, Susetta coglie prima l’ombra di sé, poi, per dissolvenza, appare il viso della seduttrice.
Da notare, soprattutto: l’uso raffinato dell’inserto non realistico (non tanto veri flash-back quanto memorie, fantasticherie, suggestioni, per sovrimpressione e dissolvenza); la funzione scrupolosa dei décor, ciascuno dei quali assorbe ed amplifica i caratteri dell’eroina (il borghese-umbertino di Susetta, l’orientale-vampiresco di Diana la rivale). Si ha l’impressione che, come tratto divistico dominante, Gallone individui in Soava la trasparenza (occhi trasparenti, abiti chiari e leggeri, levità dell’acconciatura) contro la velatura (cappelli, bistro, ciglia) di Mina D’Orvella”.
(Paola Cristalli, Cinegrafie, n.7)

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