MACISTE ALL’INFERNO
S.:Fantasio (Riccardo Artuffo). F.: Massimo Terzano, Ubaldo Arata. Eff. spec.: Segundo de Chómon. Sgf.: Giulio Lombardozzi. In.: Bartolomeo Pagano (Maciste), Elena Sangro, Pauline Polaire, Franz Sala, Lucia Zanussi, Umberto Guarracino, Mario Sajo, Domenico Serra, Felice Minotti. P.: Fert-Pittaluga (Torino). L.O: 2475m. D.: 75’. 35mm.
Scheda Film
Di Brignone, che ha attraversato quarant’anni di storia italiana, IL CINEMA RITROVATO presenta il suo film più noto: finalmente lo potremo vedere in una versione a colori e più completa di quelle finora conosciute, che ridà spessore ai ricordi di Federico Fellini (citati nella scheda che segue) e permette di capire meglio uno dei film più sorprendenti del cinema muto italiano.
Quando Stefano Pittaluga decide, agli inizi dei 1925, di mettere in cantiere Maciste all’inferno, Bartolomeo Pagano sta attraversando un momento di stanca. Sono più di dieci anni che gli fanno girare sempre lo stesso soggetto, cambiandogli solo di abito: è stato alpino, medium, poliziotto, atleta, in vacanza, giustiziere, africano, umanitario, si è salvato dalle acque, ha salvato la figlia del re dell’argento: nell’ultimo film è addirittura imperatore.
Maciste all’inferno, al contrario, si giova di un soggetto completamente diverso, opera di uno scrittore di un certo estro che si chiama Riccardo Artuffo, ma che usa un azzeccato pseudonimo: Fantasio. Ed il film risulta un’autentica fantasiosa diavoleria, un impasto di grottesco e di sentimentale, di comico e di mirabolante, ove si riescono a fondere esperienze lontane come quelle di Méliès, e coeve come quelle di Metropolis, addirittura prefigurando l’esplosione dei fumetti dei primi anni Trenta, in un godibilissimo pastiche di espressionismo e iconografia popolare, sensualità mediterranea e gotico luciferino. In questa vicenda, la lotta del Male contro il Bene (con ovvia vittoria finale di quest’ultimo) si complica di elementi soprannaturali; la rievocazione del mondo infernale è fatta secondo la classica tradizione dantesca vista nelle tavole di Gustav Doré.
Guido Brignone, regista di non eccelsa levatura, ma capace talvolta di qualche impennata, appare qui in uno stato di grazia: per creare il regno delle tenebre si affida all’abilità di quel mago dei trucchi che è Segundo de Chómon, il quale riprende dalle scenografie del bravo Lombardozzi – costruzioni monumentali, antri paurosi, bolge profonde – dei quadri di una bellezza “infemale”, rosseggianti di fiamme e densi di ombre, fumiganti spelonche e torme di diavoli cornuti. In tutta questa stregonesca fumisteria, dove impera un Barbariccia di sapore caligaresco, un Plutone che ricorda il Mangiafuoco di Pinocchio, infoiate diavolesse cui prestano le loro conturbanti nudità attrici come Elena Sangro e Lucia Zanussi, saltellanti sudditi dell’impero degli inferi, Maciste appare però il più spaesato, un colosso impotente in questo caotico affresco che sembra animarsi da una incisione medioevale. Per la prima volta lo vediamo in seria difficoltà. Stavolta è il film ad avere la meglio, non lui. Per la storia, Maciste all’inferno, per le sue scene osée, incontrò serie noie con la censura. Ma ciò avvenne dopo che il film era già stato visto, nell’ambito della Fiera di Milano, munito di un nulla osta speciale, da migliaia di spettatori. E dove vinse anche un premio. Sul film v’è anche una insolita testimonianza; ecco come ce ne parla Federico Fellini, in una testimonianza raccolta da Dario Zanelli: “Uno dei miei primi ricordi è Maciste all’inferno. Mi pare persino che sia il mio primo ricordo in assoluto. Ero molto piccolo, ero in braccio a mio padre, che stava in piedi (il cinema era affollato), quindi dovevo avere un peso sopportabile, non potevo avere più di sei, sette anni. Era il cinema Fulgor, non il migliore di Rimini: come i primi cinematografi, aveva ancora del baraccone, e ricordava il palazzo delle streghe del Luna Park. La fiumana di gente, le urla, il richiamarsi a gran voce, l’aria sempre un po’ minacciosa, almeno per un bambino; e poi il fumo, quello stare in piedi come in chiesa, come alla stazione, quelle attese sempre un pochino inquietanti, magari anche per partenze che non desideri. Quel cinemetto l’ho raccontato in tanti miei film: mi pare che si pagasse nove soldi proprio sotto lo schermo, dove c’erano alcune panche subito occupate da una marmaglia che s’azzuffava; poi c’erano i distinti a una lira.
Eccolo, il mio primo film, in braccio a mio padre, con gli occhi un po’ brucianti, perché ogni tanto, per attutire gli effetti del fumo delle sigarette, la maschera spandeva nell’aria, con quelle pompette meccaniche con cui si dava il flit alle mosche, un profumo dolciastro, acre. Mi ricordo questo saloncino buio, fumoso, con questo odore pungente e, sullo schermo giallastro, un omaccione con una pelle di capra che gli cingeva i fianchi, molto potente di spalle – molto più tardi ho saputo che si chiamava Bartolomeo Pagano – con gli occhi bistrati, le fiamme che lo lambivano intorno, perché si trovava all’inferno, e davanti a lui delle donnone, anche loro bistratissime, con ciglia a ventaglio, che lo guardavano con occhi fiammeggianti. Quell’immagine m’è rimasta impressa nella memoria. Tante volte, scherzando, dico che tento sempre di rifare quel film, che tutti i film che faccio sono la ripetizione di Maciste all’inferno […]”. (Vittorio Martinelli)